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"Un sorriso e un buon pranzo"

Recita un popolare aforisma: “non esiste nulla che non possa essere risolto con un sorriso e un buon pranzo”. Riflettendo per qualche minuto su queste parole, il pensiero non può che andare alle tradizioni culturali di Italia e Giappone, dove il cibo è convivialità, momento di svago, condivisione e soprattutto arte. Nella terra del Sol Levante il modo di preparare gli ingredienti, di cucinare e persino di consumare hanno un connotato estetico che lega tradizione, religione e storia[1]. Lo si vede nella conosciutissima cerimonia del tè (茶の湯 -“acqua calda per il tè”), risalente al XV secolo e fondata dai monaci buddhisti zen della scuola di Murata Jukō per raggiungere mentalmente e fisicamente la spiritualità superiore. A questa importante scuola zen si deve la trasformazione del rito cinese del tè in una cerimonia autonoma giapponese, secondo lo stile Wabi-cha.

Anche la tradizione culinaria italiana ha una storia fatta di senso estetico, ricerca del gusto e di sensazioni piacevoli. Gli esempi sarebbero innumerevoli, ma per fornire un parallelo molto azzardato con le usanze giapponesi, si potrebbe cogliere una vaga somiglianza nel “rito” del caffè, o nella preparazione semplice e coinvolgente della pizza. La cucina italiana e giapponese sono rispettivamente tra le più apprezzate dell’Occidente e dell’Oriente e portano con sé in ogni piatto un patrimonio di conoscenze millenario unico, inconfondibile. Scriveva il filosofo Emil Cioran che non si abita una nazione, ma una lingua: anche il cibo è lingua. La cucina di una società è il linguaggio tramite il quale essa traduce inconsciamente la sua struttura, scriveva un altro filosofo, Claude Lévi-Strauss.

La ricchezza della tradizione culinaria italiana è un tesoro a disposizione del mondo intero. Questo successo si deve sia ai tanti emigranti che in passato si sono sparsi ai quattro angoli del pianeta e alle loro discendenze, sia ai ricordi e alle impressioni positive che milioni di turisti stranieri negli anni hanno riportato con sé nei paesi d’origine. Anche il grande cinema italiano del secondo dopoguerra ha dato il suo contributo nel far conoscere gli usi e costumi degli italiani a tavola. Un patrimonio ricchissimo e vario che cambia da Nord a Sud, da regione a regione, da una città all’altra e persino tra quartieri o famiglie. Dagli anni Ottanta in poi, la diffusione del concetto di made in Italy ha fatto da apripista al successo dei prodotti italiani, agroalimentari in particolare, diventati col tempo ambasciatori di un “saper fare” unico.

In Italia si è radicata l’immagine del classico ristorante italiano all’estero, sperduto in qualche little Italy delle grandi metropoli statunitensi o nelle città principali persino dell’estremo Oriente. La cucina italiana all’estero per decenni è stata una certezza, qualcosa di addirittura scontato, dovuto sia al richiamo affascinante che questa cultura ancora esercita, sia a generazioni di italiani che hanno tenuta viva (e alta) l’idea di italianità nel mondo. Meno abituati si è invece a vedere l’Italia che subisce il fenomeno inverso, ovvero la diffusione su larga scala di locali a tema e con cucina straniera, in particolare asiatica. Il boom di ristoranti cinesi e giapponesi negli ultimi anni è stato incredibile. Talvolta, questi locali hanno preso il posto lasciato vuoto dai ristoratori italiani e si sono affermati con forza e successo in un mercato che vedeva già da tempo altri tipi di cucine straniere presenti (messicana, spagnola, nordafricana e indiana, per esempio).

In altre parole, si assiste letteralmente ad un fenomeno speculare a quello che riguardò la diffusione della cucina italiana nel mondo. Oltre ai tanti cittadini asiatici (anche di seconda o terza generazione) che vivono da molto in Italia e che gestiscono ristoranti a tema, non è da trascurare l’influenza che questa cultura ha avuto su gran parte dell’Occidente. Mangiare sushi, ramen o doriyaki, usare le bacchette o bere sakè sono cose esterne alla cultura italiana, ma con cui ormai tantissimi, soprattutto giovani, convivono. Si tratta di stimoli presenti nell’enorme offerta culturale proveniente principalmente dal Giappone che, come ampiamente risaputo, è uno dei paesi più influenti in assoluto sulla società italiana. Anni di anime, manga, libri e cinema hanno avuto lo stesso effetto che ha portato la cucina italiana a diventare un fenomeno di costume un po' ovunque. Non c’è da sorprendersi quindi di questo successo reciproco. Italia e Giappone hanno un legame molto profondo ma altrettanto singolare vista l’enorme differenza tra i due popoli. Tuttavia, questa diversità non rappresenta un ostacolo, anzi. È sempre stata l’occasione per avvicinarsi e scoprirsi ancora di più.

La cucina italiana in Giappone è chiamata itameshi (イタメシ): un’abbreviazione di “Italia” e “meshi” (飯 -pietanza-). Il primo itameshiya (ristorante di cucina italiana) venne inaugurato nel 1881 dal torinese Pietro Migliore, il quale aprì Italia-ken (“Casa Italia”) a Niigata, capoluogo dell’omonima prefettura[2]. Il giovane cuoco italiano faceva parte di un circo equestre francese ma, a causa di un grave infortunio, venne lasciato in Giappone. Grazie ad un provvidenziale gesto di carità da parte del prefetto di Niigata, Migliore poté aprirsi un piccolo ristorante, che finì sfortunatamente distrutto nel 1880 a causa di un incendio. L’anno dopo, con l’aiuto di molti amici e conoscenti giapponesi, il cuoco venuto dall’altra parte del mondo riuscì ad inaugurare un nuovo ristorante[3]. Una bellissima storia di comprensione e solidarietà tra italiani e giapponesi.

Tramite queste semplici testimonianze è possibile anche cucire la storia dei popoli, dimostrando ancora una volta quanto la cucina sia fonte di ricchezza. In Giappone erano gli anni del rinnovamento Meiji e dell’apertura agli stranieri, molti dei quali invitati dallo stesso governo per arricchire le conoscenze nipponiche in svariati settori. Proprio nel 1881 vi fu una grave crisi politica che vide contrapposti il principe Itō Hirobumi (che sarebbe stato primo ministro per ben quattro volte) e il marchese Ōkuma Shigenobu, poi costretto alle dimissioni. In Italia erano passati appena vent’anni dall’Unità, e quello stesso anno vedeva la luce I Malavoglia di Giovanni Verga, altro fiore all’occhiello del patrimonio culturale italiano. Nonostante il maggiore interesse per i giapponesi verso la cucina francese, i ristoranti italiani cominciarono a diffondersi sempre di più. Uno tra i più famosi divenne il ristorante Donnaloia aperto nel 1952 a Kobe, durante gli anni della grande ripresa economica dei due paesi[4]. Anche questo locale, così com’era accaduto circa settant’anni prima con Italia-ken, si propose sia come centro d’aggregazione per gli stranieri, sia come motivo di curiosità per i giapponesi[5]. I ristoranti italiani, come avveniva contemporaneamente ad esempio negli USA, erano punti d’incontro tra diverse culture, sfruttando l’amore e l’interesse per il cibo.

L’interesse per la cucina italiana in terra nipponica è giunto intatto sino ai giorni nostri. A tal proposito, nel mese di novembre si svolgerà in Giappone la Settimana della cucina italiana, evento legato all’omonimo progetto su scala globale che promuove la cultura italiana del cibo all’estero. L’iniziativa è promossa dal Ministero degli Affari Esteri italiano con la partecipazione di vari enti e associazioni del settore agroalimentare[6]. Nell’ambito dell'edizione precedente dell’evento, la nota piattaforma giapponese di e-commerce Rakuten promosse il cibo italiano all’insegna di “The Extraordinary Italian Taste"[7]. In Italia, invece, ci sono portali come Domechan, dal quale è possibile acquistare cibo giapponese.

In Italia gli eventi e i locali che propongono cibo giapponese sono ormai innumerevoli e registrano un grande successo di pubblico, seppur il fenomeno si è registrato solo a partire dagli anni Settanta. Nel 1972 un giovane, Hirazawa Minoru, si trasferisce in Italia per lavorare a Roma in uno dei primissimi ristoranti di cucina giapponese, all’epoca poco conosciuta dal pubblico. Qualche anno dopo fu inviato a Milano per gestire un piccolo negozio di alimentari giapponese. Nel 1989 Hirazawa si mette in proprio ed apre Poporoya (Casa del popolo), uno dei primi sushi-bar di successo Italia[8], oggi locale di grande tendenza. Sempre a Milano, si costituisce nel 2003 l’Associazione italiana Ristoratori Giapponesi (AIRG), di cui il presidente è proprio il pioniere Hirazawa Minoru. L’AIRG si occupa di “promuove l’educazione al gusto della cucina e del cibo giapponese attraverso eventi e degustazioni, proponendo curiosità e stimoli culturali noti e meno noti e riscoprendo ricette tipiche legate alle diverse realtà regionali o all’unicità di ogni stagione”[9]. Milano è stata inoltre scelta dal colosso della ristorazione giapponese Toridoll per fare da trampolino di lancio per la propria diffusione in Europa[10].


A cura di Mario Rafaniello

[1] L'arte culinaria nel Giappone tradizionale, su tuttocina.it

[2] Itameshi: la cucina italiana in Giappone, su nippop.it

[3] La storia è presente nel sito web di Italia-ken.

[4] Yuko Suyama, Fenomeno Itameshi, su identitagolose.it

[5] Concetto ribadito nel sito web di Donnaloia.

[6] Ambasciata d’Italia a Tokyo, Settimana della Cucina Italiana in Giappone 2019, su amb.tokyo.esteri.it

[7] Il cibo italiano conquista l'e-commerce giapponese, su agrifoodtoday.it.

[8] La storia del sushi (in Italia) abita qui, su fuorimagazine.it

[9] La nostra storia, su ristorantigiapponesi.it

[10] L’Italia fa gola ai giapponesi, su ristorantiweb.com


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    Redazione

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Dal Mondo Asia Centrale Temi Cultura Salute e Benessere


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cucina italiana cucina giapponese Italia Giappone sushi

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