Sfumature di un’ideologia: il femminismo socialista

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  Sara Scarano
  05 marzo 2021
  4 minuti, 35 secondi

La parola “femminismo” suscita ancor oggi reazioni contrastanti. Ciò accade perché quest'ultima è collegata ad un’ideologia sulla quale il dibattito spesso risulta fortemente acceso, carico di aggressività e attrae frequenti polemiche. Queste ultime talvolta sono alimentate anche dalla mancanza di un'approfondita conoscenza dell’essenza stessa del femminismo.

Una delle informazioni che solitamente non sopraggiungono all’interno del gruppo che si schiera fermamente contro il femminismo è che esso, in realtà, non è affatto un qualcosa d'inalterabile, portavoce di ideali che restano immutati nelle varie realtà del mondo nel corso dei decenni. Il femminismo, come tutti i fenomeni sociali, è soggetto a continui cambiamenti e ridefinizioni. Non a caso, quest'ultimo nel corso dei secoli si è scisso in svariate correnti, ognuna collegata ad una diversa sfumatura ideologica.

Tra queste vi è femminismo socialista, nato all’inizio degli anni ’70 del Ventesimo secolo con il fine di elaborare una differente concezione delle cause alla radice dell’oppressione femminile, rispecchiando il dibattito allora in corso all’interno della comunità femminista. All'interno di quest’ultima venivano a scontrarsi due fazioni: il femminismo marxista ed il femminismo radicale.

Il femminismo marxista, appellandosi direttamente alle teorie elaborate da Marx ed Engels, colloca le cause dello svilimento femminile nel quadro dei rapporti di potere tra classi sociali. Secondo questa logica l’oppressione è il risultato di un'ineguale distribuzione dei mezzi di produzione nella società di stampo capitalista, in cui la borghesia detiene il pieno dominio su tali mezzi, riservando alla classe proletaria il solo possesso della propria forza lavoro. Ma non solo: tale forza lavoro è destinata alla creazione di plusvalore da cui deriva un profitto. In questa cornice, l’oppressione femminile si colloca all’interno della famiglia borghese, laddove la donna viene valorizzata solo per le sue capacità riproduttive. Per Marx, dunque, quella femminile è percepita come un effetto collaterale della più generale oppressione di classe, frutto della più ampia divisione capitalistica del lavoro che si riverbera anche all’interno del nucleo familiare, tramite una scissione tra attività produttiva maschile e riproduttiva femminile.

Il femminismo radicale, d’altro canto, vede nel binomio biologico maschile/femminile il punto di partenza del meccanismo di subordinazione femminile nella società patriarcale. I ruoli sociali, il lavoro, il potere di autodeterminazione dell’individuo sono aspetti strettamente collegati all’uno o all’altro gruppo biologico di appartenenza. L’oppressione delle donne, quindi, viene direttamente ricollegata ad una loro intrinseca componente biologica, più che ad una determinata struttura economica, con una struttura sociale che fa da sfondo garantendo preminenza e potere economico soprattutto agli uomini. Nasce l'idea di “patriarcato” come struttura gerarchica maschile che plasma l’intero ordine sociale.

Il femminismo socialista, punto di partenza dell'intero discorso, arriva a proporre una sintesi tra le due posizioni sopraelencate. Un primo contributo rilevante in tal senso risale al 1970, quando Christine Delphy - nel suo saggio intitolato “The Main Enemy” - presentò per la prima volta una versione di “femminismo radicale basato su principi marxisti”, identificando gli uomini quali fonte principale dell‘oppressione femminile. Di conseguenza, la conclusione era che, anche in una società post-capitalistica, le donne sarebbero state comunque relegate allo svolgimento del solo lavoro domestico, portando quale emblematico esempio lo status delle donne sotto il regime stalinista.

Alla luce di ciò e rigettando il determinismo biologico tipico del femminismo radicale, il femminismo socialista considera capitalismo e patriarcato come due forze autonome tra loro, coesistenti ed ugualmente influenti sulla condizione di vita della donna. Ciò si riflette anche su una nuova definizione dei concetti di “oppressione” e “sfruttamento” non più interscambiabili come Marx li aveva inizialmente concepiti. Infatti, la parola “sfruttamento” assume una connotazione strettamente legata alla sfera economica, mentre “oppressione” fa riferimento alla condizione femminile soggetta ad una realtà dominata da relazioni di tipo patriarcale. Secondo una delle figure più influenti del femminismo socialista, Zillah R. Eisenstein, il patriarcato precede il capitalismo come forza di oppressione femminile in quanto gli uomini hanno, nel corso della storia, costantemente strumentalizzato la capacità riproduttiva delle donne per relegarle al solo ambito familiare.

Tuttavia, anche all’interno della stessa corrente del femminismo socialista, non si è raggiunta l’unanimità riguardo alla definizione di una serie di concetti chiave appartenenti all’ideologia femminista, primo fra tutti la definizione di “patriarcato”. A livello generale, esso è comunemente riconosciuto come insieme di principi alla base dell’ordine sociale - comuni a diversi tipi di società - che costituiscono il pilastro portante dell’oppressione femminile. Eppure, molteplici interpretazioni si diramano da quella principale, come anche diverse sono le considerazioni fatte rispetto alle modalità attraverso le quali capitalismo e patriarcato si intrecciano influenzando la vita delle donne.

Il duro tentativo di creare una sintesi fu quindi largamente accolto – sia dalla corrente del femminismo radicale sia da quello marxista – con forti perplessità, proprio a causa della mancanza di una solida ed unitaria struttura ideologica che riuscisse a racchiudere in modo coerente le due teorie. In ultima istanza, probabilmente a causa della mancata coerenza dei suoi postulati, la corrente socialista perse ben presto la sua struttura di movimento politico, incapace di formulare un programma in grado di innescare un’autentica lotta sociale.

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L'Autore

Sara Scarano

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