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Risorgere dalle ceneri

L'ascesa industriale giapponese e italiana dal dopoguerra ad oggi

La posizione geografica dell’Italia in Europa, e del Giappone in Asia, da secoli rappresenta un fattore positivo nelle rispettive economie. I fiorenti scambi commerciali sviluppatisi prima nelle aree circostanti, poi attraverso i continenti, sono stati i semi del loro progresso commerciale e sociale[1]. Spostandosi all’epoca moderna, contrassegnata da uno sviluppo tecnologico e da un’interdipendenza economica senza precedenti, bisogna ricordare come una gran parte del mondo si sia dovuta “reinventare” a seguito della Seconda guerra mondiale. La distruzione assoluta lasciata dal conflitto, costrinse molte economie mondiali a riorganizzarsi dal nulla. Incredibilmente, molte di queste risorsero, avviando una lunga fase di progresso e modernizzazione che ancora oggi procede (seppur con qualche rallentamento). 

Una storia di distruzione e rinascita, che accomuna anche Italia e Giappone, tra i paesi maggiormente coinvolti dagli orrori della guerra.

La sfida per la convalescente industria giapponese post-atomica, era rendersi competitiva e allo stesso tempo viva. Il Giappone (come del resto anche l’Italia) era uscito a pezzi dal conflitto, e con esso anche la sua struttura socioeconomica. La concorrenza con la locomotiva industriale statunitense, che aveva mostrato in entrambe le guerre mondiali i muscoli, sembrava impossibile da fronteggiare. 

Il discorso, ovviamente, era lo stesso per l’Europa, le cui macerie erano ancora fumanti negli occhi e nel respiro dei sopravvissuti. 

Quale fu, allora, il segreto dell’incredibile ascesa dall’abisso della società giapponese, oggi tra le più avanzate e innovative al mondo?

A partire dal secondo dopoguerra anche il Giappone, come alcuni paesi europei tra cui l’Italia, visse un suo miracolo economico (高度経済成長-Kōdo keizai seichō); in poco tempo diventò un modello da seguire. Alla base di questa scalata all’Olimpo dell’economia mondiale vi fu un’autoriforma del modello industriale, basata su un nuovo modo di vedere l’azienda. Quest’ultima, al pari della nazione, venne messa al centro di un sistema di valori che doveva guidare l’operato delle nuove realtà imprenditoriali. Efficienza, qualità totale, soddisfacimento del cliente, lealtà e nuove tecniche di produzione, furono gli ingredienti per il successo. Il sistema produttivo andava ottimizzato per evitare criticità quali sovrapproduzione, stoccaggi latenti, spreco di preziose materie prime. Questi, in realtà, erano fattori rinvenibili nel modello statunitense fordista[2], dove l’enorme capacità di assorbimento del mercato (fattore determinante durante l’economia di guerra) permetteva l’esistenza di un sistema produttivo con ingente impiego di materie prime e produzione in serie su larga scala.

Fu su queste basi che, nel secondo dopoguerra, le maggiori realtà industriali giapponesi rividero i propri modelli, rifondandoli sulla massimizzazione del profitto a costi contenuti, secondo nuove tecniche e capacità. I lavoratori venivano divisi in squadre ben precise e con compiti altrettanto mirati. L’obiettivo finale era una produzione snella, veloce, dove le mansioni non essenziali o ripetitive venivano automatizzate; quest’ultimo aspetto ha reso la tecnologia giapponese celebre e apprezzata nel mondo. Negli anni Ottanta, l’automazione (jidoka - 自働化) divenne un vero e proprio paradigma industriale, un modello vincente e competitivo. A corredo di questo nuovo modo di concepire la produzione vi fu il cosiddetto “just in time”, cioè l’ottimizzazione del controllo e la programmazione delle risorse in maniera da poter produrre solo il necessario, quando opportuno. In conclusione, mentre nel modello statunitense era l’offerta a creare la domanda, piazzando sul mercato quantità infinite di beni, nel modello giapponese avveniva esattamente il contrario: si produceva in base all’occorrenza, evitando ogni sorta di spreco.

Questo modello passò alla storia come “toyotismo”, dal nome della nota azienda automobilistica in cui venne applicato con successo. Una svolta, quella iniziata dalla realtà giapponese negli anni Cinquanta, mentre in Italia prendeva vita il cosiddetto boom economico[3]. In effetti, entrambi i paesi vivevano parallelamente una situazione simile, comune ai territori da poco usciti distrutti dalla guerra che avevano assoluto bisogno di ricostruire e ricostruirsi. Uno dei massimi storici del Novecento, il compianto Eric J. Hobsbawm, definì il miracolo economico mondiale (o almeno, una parte di esso) del dopoguerra come una golden age[4]

Ma il miracolo giapponese non termina qui. Grazie alla rapida industrializzazione e al successo delle sue politiche industriali, il Giappone agì da paese starter nell’estremo Oriente. Oltre ad imitarne il modello, altre realtà asiatiche quali Singapore, Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud trovarono nel Giappone un partner commerciale affidabile e in grado di far progredire le proprie economie. Questa interdipendenza esplosa, dagli anni Sessanta in poi consentì la rapida ascesa delle giovani economie citate, che in breve tempo formarono il nucleo iniziale dei cosiddetti Nics (Newly Industrializing Countries)[5].

Un aspetto di non poco conto è che questi scambi tra Giappone e nuovi partner non seguivano la logica dello scambio ineguale, tipica del colonialismo europeo dei secoli precedenti. In quest’ultimo modello di scambio i potenti e ricchi Stati europei, per esempio, riempivano le casse a scapito delle colonie africane, sudamericane e asiatiche[6]. Il rovesciamento dello scambio ineguale fu il segreto del boom asiatico (oltre alla delocalizzazione delle imprese occidentali), di cui ancora oggi gli effetti sono tangibili. Il Giappone commerciò su un piano di parità con i suoi vicini.

Dall’altra parte del mondo, anche l’Italia cercava di riprendersi faticosamente dalla guerra. Già a partire dai primi anni Cinquanta, la concomitanza del Piano Marshall e della rinnovata capacità produttiva dell’industria pesante[7], fecero da base per la rinascita italiana. L’operosa manodopera in abbondanza garantì forza lavoro nei grandi agglomerati industriali del nord Italia, mentre al Sud cresceva nel settore agricolo. L’ondata di benessere e novità tecnologiche portò anche nelle famiglie italiane l’abitudine al consumo di massa. Un aspetto spesso sottovalutato di questa fase fu l'impatto sociale degli elettrodomestici sulla struttura sociale italiana. La televisione garantì la diffusione uniforme della lingua italiana e innalzò il livello di apprendimento generale. Altri apparecchi per uso domestico (come la lavatrice ad esempio) sollevarono le donne da alcune pesanti mansioni familiari, permettendo una loro maggiore presenza e integrazione nella società e nel mondo del lavoro.

Tra le eccellenze italiane che, così come avveniva in Giappone col toyotismo, fecero da modello positivo, vi fu il sistema delle piccole e medie imprese (PMI). Tutto il tessuto produttivo italiano poteva contare non solo sul fenomeno delle grandi industrie trainanti del boom, ma anche su una miriade di attività di modeste dimensioni altamente specializzate. Artigianato, arredamento, automazione, alimentare[8]; queste sono solo alcune delle realtà imprenditoriali nelle quali gli italiani hanno da sempre mostrato grandi capacità, anche in piccoli contesti imprenditoriali. Un amore per la tradizione e un’apertura all’innovazione che riducono sempre di più la distanza con l’esperienza giapponese.

Che si tratti di pittori, scultori, scrittori o altri grandi artisti, l’Italia è probabilmente l’unico paese al mondo a poter vantare un retaggio culturale simile, che affonda le radici nel passato più remoto. Un fattore che ha accompagnato nei secoli l’immagine del “saper fare” italiano all’estero, dalle prime botteghe artigiane ai grandi marchi colonne dell’export. Una lunga tradizione storica che converge nel Made in Italy, fiore all’occhiello dell’imprenditorialità italiana. Un marchio che ha garantito il successo della produzione e del modello italiano nel mondo, permettendone anche un appeal culturale.

Proprio il “made in” italiano è stato protagonista lo scorso anno a Osaka, una delle città più popolose e importanti del Giappone, famosa tra l’altro per il noto castello (大阪城-Ōsaka-jō)[9]. Nel novembre 2018, si è svolta la manifestazione “Italia Amore mio”, organizzata dalla Camera di Commercio Italiana di Tokyo, in collaborazione con l'Ambasciata e il Consolato d’Italia, l'ICE e l'ENIT. L’evento ha fornito l’occasione a molti imprenditori e prodotti italiani di mettersi in vetrina e farsi conoscere presso il pubblico giapponese. Questa è solo una delle numerosissime iniziative che regolarmente si svolgono in Giappone per dare visibilità ai prodotti italiani.

Quello giapponese rappresenta per i prodotti agroalimentari italiani (vero settore trainante del Made in Italy) il quinto mercato al mondo, con un valore complessivo che supera i 55 miliardi. Una spinta positiva l’ha data anche l’accordo di partenariato economico stipulato tra UE e Giappone[10], il quale prevede una forte riduzione/eliminazione dei dazi sugli scambi tra le due aree commerciali. Infatti, come è emerso dal IV Forum Agrifood Monitor di Nomisma 2019, quello del Made in Italy agroalimentare in Giappone è decisamente un trend in crescita[11]. A sua volta, secondo gli ultimi dati disponibili sull’import dal Giappone in Italia forniti da infomercatiesteri.it[12], dopo il calo del 2018 si è intravista una decisa ripresa nel primo semestre di quest’anno.

A cura di Mario Rafaniello

[1] Si pensi per la penisola italiana, ad esempio, al contributo dato dagli scambi commerciali nel Mediterraneo allo sviluppo dell’Impero romano nel IV-III sec.a.C. (che portò alla creazione di un apposito praetor peregrinus per regolare i rapporti con gli stranieri. Oppure ai commerci delle Repubbliche marinare dal IX sec. d.C., i cui porti furono importanti punti di scambio anche culturale con l’estero.

[2] Da Henry Ford (1863-1947), imprenditore statunitense e pioniere dell’industria automobilistica.

[3] Anche in questo caso a trainare il miracolo economico vi fu una nota azienda automobilistica, ancora oggi leader nel settore.

[4] Inserita tra una “età della catastrofe” (1914-1945) e una “età del disordine” (1973-1991).

[5] L’esplosione dei Nics, e successivamente di Malesia, Thailandia e Vietnam, ruppe definitivamente l’indifferenza nella quale regnava fino ad allora la nozione di Terzo mondo (già incrinata con i paesi arabi dalla vicenda OPEC nel 1973), di cui queste realtà erano parte.

[6] La logica di questo modello era la vendita di prodotti finiti o semilavorati in cambio di preziosissime materie prime. I paesi avanzati sapevano come usare queste risorse; non altrettanto può dirsi delle colonie che ricevevano prodotti finiti, magari di basso valore, e senza adeguate conoscenze tecniche.

[7] Un forte contributo fu dato dalla massiccia domanda causata dalla guerra di Corea (1950-53).

[8] Le famose quattro “A” del Made in Italy.

[9] Costruito originariamente per volere dell’importante samurai e militare Toyotomi Hideyoshi tra il 1583 e il 1598, subì vari attacchi e crolli nei secoli successivi. Nel 1868, anno turbolento che segnò il traumatico passaggio dal periodo Tokugawa alla restaurazione Meiji (per mezzo della guerra Boshin), il castello venne quasi distrutto. Verrà ricostruito con fatica nell’arco del XX secolo.

[10] Entrato in vigore il 1° febbraio 2019, ha creato l’area di libero scambio più grande al mondo.

[11] https://www.nomisma.it/index.php/it/press-area/news/item/1850-10-giugno-2019-forum-agrifood-monitor-2019

[12] http://www.infomercatiesteri.it/scambi_commerciali.php?id_paesi=126


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