Primo mondo, terzo mondo: la crisi climatica in Africa

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  Nadia Dalla Gasperina
  04 novembre 2021
  4 minuti, 18 secondi

Youth4Climate, uno degli eventi che precedono il Cop26, ossia la Conferenza sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite che si terrà alla fine del mese, è finito da circa una settimana, ma le parole di Vanessa Nakate rimbomberanno a lungo. La paladina dei Fridays for Future in Uganda e fondatrice di Rise Up Climate Movement, un movimento che riunisce attivisti africani con l’obiettivo di proporre nuove soluzioni per il continente, ha chiamato i leader mondiali ad aiutare l’Africa a gestire gli effetti della crisi climatica

L’Africa è infatti uno dei luoghi maggiormente colpiti, pur essendo un minimo produttore di anidride carbonica e sostanze inquinanti: uno studio del Carbon Disclosure Project mostra come le compagnie più inquinanti, tutte nell’industria delle energie non rinnovabili, provengano da Cina, Medio Oriente, Russia, e dalle Americhe, ma nessuna tra le prima 15 è africana. Un altro studio dell'Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite conferma che le dieci nazioni che producono più emissioni di anidride carbonica per capita sono capitanate dal Qatar, ma anche la Thailandia è un produttore più grande di qualsiasi Paese africano. L’emotivo ma realistico intervento di Vanessa Nakate denuncia la situazione della sua patria, sempre più colpita da siccità, allagamenti, e disastri ambientali che mettono a rischio non solo l’ecosistema, ma anche il fragile sistema economico basato principalmente sull’agricoltura. Assieme a Greta Thunberg esorta i potenti della politica ad agire invece che parlare, facendo presente che risolvere il problema dei rifugiati climatici, dei litorali che rischiano di scomparire sott’acqua, e dell’estinzione di specie animali e vegetali, è più urgente che mai. Non è possibile, dice, che i Paesi più deboli debbano pagare il prezzo delle azioni dei ricchi, e le nazioni più sviluppate devono aiutare gli altri non con prestiti, ma con sovvenzioni, in modo che non si aggiungano ulteriori problemi economici a nazioni già indebitate abbastanza.

Che la redistribuzione di risorse tra nazioni di livelli diversi porti beneficio a tutti è ormai provato. Non serve solo ai Paesi in via di sviluppo per creare solide basi economiche, materiali, e tecniche, ma anche a prevenire conseguenze che già vanno a impattare il “primo mondo”, come migrazioni, perdita di biodiversità, e accesso a nuovi mercati in forte espansione. Un rapporto dell’OECD dimostra che il cambiamento climatico danneggia maggiormente le comunità più povere, la cui sopravvivenza si basa sul settore primario, e che vivono in ambienti mediamente già più caldi dei Paesi ricchi. Inoltre, un mondo più caldo e meno prevedibile significa più possibilità di sviluppare nuove malattie, o di creare ambienti dove le malattie già esistenti possono prosperare. L’impegno degli Stati ricchi deve dunque andare verso lo sviluppo di adeguate strutture sanitarie nel terzo mondo, nonché di condividere know-how su come gestire le emergenze ambientali. In parole povere, le nazioni meno sviluppate devono essere assistite nel rafforzare le loro capacità di adattarsi al cambiamento climatico. Il problema principale è apparentemente che noi non siamo disposti a prenderci la nostra parte di responsabilità: non vogliamo perdere posti di lavoro nelle industrie fossili, farci carico della transizione ecologica, anche grazie al fatto che gli effetti del cambiamento climatico sono meno visibili rispetto ad altre parti del mondo. Il Segretario Generale dell’OECD, Mathias Cormann, mostra come i Paesi più ricchi si fossero impegnati a investire 100 miliardi di dollari all’anno per contrastare il cambiamento climatico a partire dal 2009, ma fino ad ora tale obiettivo non è mai stato raggiunto; nel 2019 mancavano più di 20 miliardi di dollari all’appello. La maggior parte dei soldi è rappresentata da prestiti, mentre le sovvenzioni sono una percentuale decisamente minore.

Non solo, i Paesi sviluppati sono anche lenti nell’agire in modo pratico: sebbene si parli di rifugiati climatici da molto tempo, questi non hanno ancora una definizione nel diritto internazionale, e dunque non possono far uso di specifiche misure di protezione; la relazione tra cambiamento climatico e diritti umani è ancora poco chiara, anche se è provato che, in alcuni casi, il cambiamento climatico non rispetta il diritto alla salute; non da ultimo, non esistono ancora soluzioni definitive su come preservare il patrimonio culturale e etnografico di un’area, danneggiato da eventi climatici estremi e da migrazioni. Le iniziative, sia pubbliche sia private, sono in realtà molte, e vanno dal microcredito all’educazione, passando per investimenti a fondo perduto. Ciò che manca, però, è un’azione sistematica e coordinata a livello globale in cui gli stati ricchi si impegnino veramente a sopperire con contributi economici e materiali ai danni, già quantificati, subiti dai Paesi in via di sviluppo.

Fonti consultate per il presente articolo:

1. The Carbon Majors Database

2. AR6 Climate Change 2021 - 6th assessment report

3. Vanessa Nakate's speech

4. Africa's path to growth

5. OECD, Distributional Aspects of Climate Change

6. Statement from OECD Secretary M. Cormann

7. Cultural Heritage - EESI

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L'Autore

Nadia Dalla Gasperina

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