L'arte del rendere visibile l'invisibile

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  Redazione
  31 gennaio 2020
  7 minuti, 50 secondi

Le arti visive sono un campo di conoscenza e produzione artistica praticamente infinito. Con questa espressione si rimanda nella maniera più indeterminata (e fantasiosa) a qualunque tipo di creazione artistica visibile con la quale l’artista-creatore dà letteralmente vita ad un qualcosa di percepibile e tangibile. Dalla dimensione interna dell’anima, grazie al talento e all’ingegno dell’artista, l’opera nasce dalle mani (o dagli strumenti) e trova il suo spazio nella realtà. Nel mezzo, ovvero tra “l’essere reale” dell’opera e la sua ideazione nella mente del creatore, c’è uno spazio materialmente vuoto. Questo “vuoto” esistenziale (e non solo materiale) ha stimolato fin dalle origini l’umanità a trovare modi sempre diversi di esprimere e rendere visibile l’invisibile. Fin dalle pitture rupestri, l’uomo ha avuto letteralmente necessità di comunicare ciò che aveva dentro; ciò che forse nemmeno i primi linguaggi arcaici rendevano compiutamente. Negli oggetti l’uomo ha riversato di tutto: il gusto per l’estetica, il desiderio di libertà, la vicinanza al divino, messaggi di lotta e in generale tutto lo scibile umano. Dalla continua ricerca di forme sempre più efficaci e coinvolgenti, per sfogare le continue sfumature artistiche di singoli individui o di intere comunità, sono nate la pittura, la ceramica, la scultura, il teatro e molto altro. Ad animare la moderna street art cos’è se non lo stesso desiderio di veicolare un messaggio che spingeva gli antichi artisti a scolpire e dipingere dèi e re, per esempio? Le arti visive, ampiamente intese, cambiano forma e pelle continuamente; la storia, con le sue convulsioni, impone scuole di pensiero e modelli concettuali sempre diversi. Ma la costante dell’arte “visibile” è sempre la stessa: stupire, far riflettere, mandare un messaggio, rendere immortale ciò che si teme mortale, avvicinarsi all’ignoto o immaginarlo.

Ovviamente, l’arte giapponese non ha bisogno di presentazioni col suo immenso e affascinante patrimonio artistico e culturale su cui si è scritta qualunque cosa. Ma il richiamo unico di questa cultura risiede nella sua commistione tra diversi saperi che riescono a combinarsi in maniera meravigliosa. Arte, lingua, filosofia, religione e storia in Giappone riescono ad intrecciarsi e separarsi in un movimento squisitamente armonioso. Come sparute e piccole foglie di tè nello specchio d’acqua di una tazza bollente che si avvicinano e si allontanano, creando colori intensi e profumi invitanti. Il tutto mentre sullo sfondo poche gocce di pioggia scandiscono il ritmo della natura. Sono queste le sensazioni che pervadono l’animo di un vero artista che immagina la sua opera finita prima ancora di iniziarla. Ma nel mezzo, come accennato, c’è un vuoto. In giapponese quello spazio ha un nome: ma (間). Il termine indica un intervallo, un vuoto, una pausa che separa due elementi, come l’artista-creatore e la sua opera in divenire. Questo concetto si riallaccia al buddhismo Mahāyāna, dove il “vuoto” è un elemento centrale. Nell’estetica giapponese un ideale utile per riempire il vuoto artistico è il concetto di mono no aware (物の哀れ)[2]. Come gran parte dei concetti della tradizione culturale giapponese, è quasi impossibile tradurlo in un’altra lingua e ridurlo a qualcosa di pronto all’uso. Nella sostanza si può sussumere il pathos, il coinvolgimento emotivo nelle cose. Non si contano i concetti dell’estetica giapponese per quantità e qualità e citarne altri rischierebbe di snaturarne l’importanza. Nei due citati (ma e mono no aware) si trova già una piccola fonte di ispirazione per la comprensione superficiale di quel difficile intreccio citato e unico tipico del Giappone: arte, filosofia, armonia e divino applicato alle arti visive. Se c’è un’arte che in Giappone più delle altre ne è la sintesi è lo shodō (書道), la famosa arte della calligrafia[3]. Antichissime sono le tradizioni dell’ikebana (生け花- composizioni floreali) e dell’origami (折り紙- creazione di figure ottenute piegando dei fogli di carta)[4] che ancora oggi riscuotono successo e sono molto conosciute fuori dal Giappone. Anche queste due arti visive coniugano valori quali l’estetica, l’equilibrio e l’armonia e fanno parte dell’inimitabile patrimonio culturale del Sol Levante.

Proprio perché la cultura artistica giapponese è stata oggetto di innumerevoli studi, ricerche, pubblicazioni, mostre, articoli e altro, in queste righe si menzioneranno appena delle forme di arte visiva più moderne e di nicchia, forse meno conosciute in Occidente. Inevitabilmente, se si mette arte e Giappone nella stessa frase la prima cosa cui si pensa è quasi sempre l’ukiyo-e e Katsushika Hokusai, uno dei suoi più grandi maestri. Hokusai fu anche un produttivo disegnatore di manga, nei quali raffigurò soggetti di qualunque tipo compresi mostri, caricature e figure di nudo. Questi elementi permettono di citare un genere ascrivibile anche al manga poco conosciuto in Occidente, ossia l’ero-guro. Con le sue immagini profondamente disturbanti, l’ero-guro rientra fin troppo nel concetto di arte visiva che dovrebbe suscitare un’emozione. Si compone di illustrazioni che mischiano horror, nonsense e eros, creando combinazioni visivamente magnifiche ma difficili da accettare senza una certa conoscenza profonda dell’immaginario giapponese in questa direzione (si pensi ai celebri hentai[5]). Tornando per un attimo a Hokusai, chi non avrebbe un sussulto passando improvvisamente dai suoi tranquilli paesaggi all’opera Il sogno della moglie del pescatore? Quest’ultima rientra nel genere chiamato shunga[6]. Il pensiero a questo punto potrebbe andare ai tanto amati anime e videogames giapponesi, che dagli anni ’80 in poi sono letteralmente esplosi in tutto il mondo, facendo anch’essi da veicolo culturale. Entrambi hanno portato i loro elementi erotici, horror e stravaganti (in maniera spesso separata, più raramente combinata) anche in Occidente, contribuendo a far conoscere gli aspetti più singolari della società giapponese. Tra questi, una fervida immaginazione in fatto di elementi futuristici e ultramoderni da parte di un popolo che in quel tempo stava crescendo esponenzialmente nell’elettronica e nella tecnologia.

L’innovazione tecnologica (cui il Giappone ha dato un contributo insostituibile) ha creato nuove forme d’arte visive che hanno spezzato il legame con il passato. Alla classica pittura si è aggiunta la fotografia digitale e alla scultura le installazioni artistiche (anche di enormi dimensioni). Design, ricerca, novità e bellezza riescono ad intrecciarsi e separarsi, legando i vecchi artisti giapponesi ai nuovi. Un continuo cambiamento, un continuo evolversi nei tempi. Riempire il vuoto col pathos, appunto. La tecnologia anziché spazzare via tutto come spesso accade, ha fornito nuovi strumenti per produrre idee e alimentare talenti. Daido Moriyama è uno dei maggiori maestri di fotografia giapponesi, con esposizioni mondiali che vanno da Londra a New York. Il suo successo ha fatto conoscere la street photography giapponese ovunque. Le sue fotografie sono forti, provocatorie, caratterizzate da un bianco e nero molto contrastato che racconta un Giappone alle prese con il cambio di identità del dopoguerra[7]. Invece l’artista Chiharu Shiota (che è stata allieva di Marina Abramovic) è famosa per le sue installazioni che rappresentano tele di ragno, fili, tubi e oggetti vari di uso quotidiano[8], che creano spettacolari narrazioni e suggestioni estremamente coinvolgenti. Nel mondo della moda, una rivoluzione si ebbe negli anni ’70 con l’affermazione di tre dei più famosi stilisti giapponesi: Rei Kawabuko[9], Yoshij Yamamoto e Issey Miyake.

A far discutere in tutto il mondo è sempre l’amata/odiata arte moderna. Il Giappone, come in molti altri campi, non è solo fascino di un glorioso passato. Anche l’arte contemporanea del Sol Levante ha molto da dire. Tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento è stato particolarmente attivo il gruppo artistico Gutai, fondato da Jiro Yoshihara[10]. Respingendo la tradizione, il Gutai ha proposto performance artistiche e spettacoli teatrali basati sull’immediatezza e l’innovazione, reagendo a quello che era il rigido clima del dopoguerra. Infatti, il Gutai perseguiva l’obiettivo di diffondere attraverso metodi e stili diversificati la libertà d’espressione, particolarmente enfatizzata in un Giappone che in quegli anni si stava lentamente riprendendo. Più o meno negli stessi anni si sviluppò la corrente del Mono-Ha i cui discepoli, come i membri del Gutai, cercavano innovazione e novità artistica sfidando la tradizione. Li distingueva l’uso di materiali naturali e la concezione dell’uomo in rapporto alla natura, allo spazio, alle cose. Tra gli artisti contemporanei più famosi spicca l’anziana Yayoi Kusama[11], conosciuta in tutto il mondo. Donna dallo spirito vivace, nonostante una vita piuttosto dura alle spalle, ha rivoluzionato l’arte giapponese contemporanea. Il suo talento di lungo corso spazia dalla pittura, alla ceramica, alla moda fino alla scrittura. Il suo stile tende alla pop art e al surrealismo, ed è stata protagonista delle avanguardie artistiche della favolosa New York degli anni ’60.

Uno dei maggiori musei d’arte contemporanea in Giappone è il 21st Century Museum of Contemporary Art, a Kanazawa. Altri musei da segnalare sono il Museo Migo di Shiga e il Museo d’arte Adachi di Shimane. A Tokyo i musei abbondano, ma si fanno presenti l’Idemitsu Museum e il Museo nazionale di arte moderna[12], se si vogliono conoscere aspetti diversi dalla cultura classica del paese. Infine, per chi volesse approfondire l’arte giapponese in generale prima di partire per la splendida terra nipponica, c’è la possibilità di consultare l’ottimo portale Enjoy my Japan, facente parte del sito JNTO, l’ente nazionale turistico giapponese[13]. Qui si possono trovare le migliori attrazioni artistiche, suddivise anche per settore (musei, architettura o teatro).

A cura di Mario Rafaniello

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