La situazione femminile in Giappone: la violenza di genere e il caso di Shiori Ito

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  Redazione
  19 luglio 2021
  4 minuti, 51 secondi

A cura di Elisa Capitani

La situazione delle donne in Giappone è da sempre complicata e, soprattutto, poco considerata all’interno degli organi politico-istituzionali. Nonostante alcuni passi sono stati compiuti negli anni Ottanta grazie alla ratifica della Convenzione sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione della Donna, volta a eliminare qualsiasi tipo di disuguaglianza di genere in ambito lavorativo, ad oggi, il quadro lavorativo per le donne non è ancora cambiato e non è, inoltre, allo stesso livello di quello maschile.

Significativa in questo senso è la percentuale di donne parlamentari in Giappone. Infatti, queste ultime sono solo il 10% a fronte di una media mondiale del 25%. Inoltre, il Giappone è il secondo paese, dopo la Corea, ad avere il gender gap (ovvero il divario salariale) più elevato. Anche il tasso di occupazione mostra una sostanziale differenza tra uomini e donne; nel 2019 i dati mostravano un miglioramento per quanto riguarda l’occupazione lavorativa di donne in età compresa tra i 20 e i 30 anni. Tuttavia, molti dei lavori presi in considerazione erano part-time. Un'altra condizione relativa alla disparità di genere in Giappone si è registrata in ambito universitario: celebre è il caso della Tokyo Medical University del 2018 in cui vennero riscontrate discrepanze nella correzione dei test di ingresso all’università al fine di ammettere più uomini che donne.

A partire dagli anni Settanta iniziarono a nascere movimenti femministi che lottano per migliorare la condizione della donna. Tra gli altri, Jiosei to Seiji, nato alla fine degli anni Novanta e focalizzato sull’aumentare il numero delle donne in ambito politico, e Women’s action network, con a capo Chizuko Ueno, che supporta le donne in tantissimi settori e in modalità diverse. Anche l’ex Primo Ministro Shinzo Abe, in carica per il secondo mandato dal 2012 al 2020, aveva promesso che avrebbe aiutato le donne giapponesi ad uscire da questa condizione di disuguaglianza promuovendo il womenomics, una serie di norme che avrebbero permesso di creare una “società nella quale le donne potessero brillare”.

A queste condizioni di disuguaglianza lavorativa ed educativa si affianca una problematica ancora più grave, e fino a poco tempo fa anche non troppo dibattuta, ovvero quella della violenza di genere in Giappone.

In Giappone sono innumerevoli e scioccanti le mancate condanne nei confronti di uomini che hanno violentato o ucciso donne; molte vittime, per questo motivo, non trovano il coraggio di intraprendere un percorso lungo e difficile, che le porterebbe unicamente ad essere giudicate e a sentirsi non protette dal proprio Paese. Statisticamente parlando, secondo il Gabinetto giapponese, il 60% delle donne non denuncia le violenze subite.

A questo panorama a dir poco scoraggiante per le vittime si è opposta però Shiori Ito, una giovane reporter. Nel 2015, mentre si trovava a Tokyo per una cena di lavoro, Shiori Ito è stata violentata da Noriyuki Yamaguchi, giornalista ex capo del Washington Broadcasting System di Tokyo e biografo del Primo Ministro Shinzo Abe. Nei giorni seguenti, Shiori ha trovato il coraggio di denunciare l'accaduto e di intraprendere un percorso per vie legali contro il suo stupratore, nonostante i tentativi di farla desistere attuati da agenti di polizia e dal suo stesso avvocato. Quando ha perso la causa penale non si è arresa e ha portato avanti una causa civile per ottenere giustizia, richiedendo un risarcimento per la violenza subita. Nel dicembre del 2019, la sentenza di primo grado le ha dato ragione permettendole di avviare un processo tutt'oggi in corso.

Shiori Ito rappresenta sicuramente un precedente nella cultura giapponese. È stata, infatti, la prima donna ad esporsi pubblicamente, anche tramite conferenze stampa, per denunciare il proprio aggressore. Per questo motivo è diventata una vera e propria icona femminile per le donne giapponesi e il suo libro, Black Box, è divenuto un manifesto della violenza di genere in Giappone. Uno dei nuclei principali del libro è da riscontrarsi nella denuncia che Shiori fa al cammino difficile che la donna deve intraprendere a livello culturale e legale, a causa di un sistema che non la protegge e che cerca sempre di giustificare la violenza dell’uomo.

La figura di Shiori Ito ha dato vita al movimento #metoo, nato anche qualche mese prima di quello americano. Questo movimento viene chiamato spesso anche #wetoo, da una parte, per sottolineare la sua natura collettiva, la solidarietà che si crea e che implica un “noi donne”; dall’altra, questa collettività è dovuta al contesto culturale giapponese, che rende più difficile e pericoloso mettere la faccia per denunciare la violenza di genere. Black Box non è quindi soltanto un racconto personale ma anche, e soprattutto, la base per poter ricercare un cambiamento per le donne in Giappone. Prendendo spunto dalle pagine di questo libro è nato, nel 2019, un altro movimento, il Flower demo; a seguito poi di sentenze scioccanti riguardo reati sessuali gravi, come l’assoluzione di uomini che hanno stuprato bambine di 12-13 anni, il movimento è cresciuto sempre di più. Questi movimenti hanno come obiettivo principale quello di creare solidarietà tra le vittime, pene più lunghe e giuste per gli aggressori e, soprattutto, di introdurre una riflessione intorno al tema del consenso. In Giappone, infatti, molte vittime sono state accusate di non essersi opposte esplicitamente, lasciando intendere che il consenso era dato al proprio aggressore.

Non è sicuramente un percorso facile quello intrapreso da Shiori Ito che, ad esempio, riceve quotidianamente vessazioni su internet, soprattutto per aver parlato con la “straniera” BBC e aver accettato di girare un documentario sulla sua storia; ma, grazie a lei e al coraggio di moltissime altre donne giapponesi, per la prima volta qualcosa sta cambiando per quanto riguarda la condizione della donna.

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Asia Orientale

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