La schiavitù dei pescatori in Thailandia

  Articoli (Articles)
  Sara Scarano
  28 giugno 2021
  5 minuti, 45 secondi

Attualmente la Thailandia è tra i maggiori esportatori di frutti di mare al mondo. Circa il 20% del totale degli export di prodotti alimentari del paese è composto da tonno in scatola, gamberetti e sardine, tanto che il valore della loro esportazione è arrivato a sfiorare i sei miliardi di dollari nel 2018. Eppure, la stessa industria che contribuisce grandemente al GDP nazionale soffre da anni di carenza di manodopera, condizione che ha portato, nel tempo, alla creazione di una vera e propria tratta di lavoratori migranti.

Secondo l’Organizzazione Non Governativa Thailandese LPN (Labour Protection Network), si stima che, dei quasi 600.000 lavoratori attivi nel settore, circa la metà siano migranti per lo più provenienti da paesi quali Myanmar e Cambogia. Il destino di coloro che vengono intercettati attraverso le figure dei reclutatori – cosiddetti “broker” – consiste nell’essere imbarcati su navi da pesca a scopo commerciale ed obbligati a lavorare senza alcuna retribuzione anche per un periodo che si prolunga per anni. Le condizioni di lavoro rasentano uno stato di schiavitù, in cui le persone coinvolte sono sottoposte a continue percosse, malnutrizione e violenza estreme, in violazione dei più essenziali diritti umani. Un report redatto dall’UNIAP (United Nations Inter-Agency Project on Human Trafficking) segnala come circa il 59% dei migranti coinvolti nel traffico illegale abbiano assistito all’omicidio di un altro lavoratore. Frequente risulta anche la pratica di gettare in mare i corpi martoriati dei lavoratori senza vita.

Il fenomeno del reclutamento forzato è stato per la prima volta portato alla luce tra il 2014 e il 2015, a seguito di numerosi reportage dei media locali e del lavoro di Human Rights Watch. La reazione della Commissione Europea fu immediata; già nel 2015 minacciò un’interruzione del commercio di frutti di mare con la Thailandia. Lo stesso sistema di leggi tutelanti i lavoratori risultava al tempo essere completamente privo di qualsiasi forma di effettiva protezione. Il Thailand Labour Protection Act, infatti, non si riferiva ai lavoratori impiegati nell’industria ittica e lo stesso sistema impediva un efficace tracciamento del personale, poiché le navi potevano effettuare scambi di lavoratori direttamente in mare. Non è raro inoltre che le compagnie ittiche corrompessero le autorità locali o effettuassero la vendita di navi da pesca a compagnie estere - includendo nella transazione anche i lavoratori presenti sull’imbarcazione - rendendo ancor più complesso il tracciamento. Per di più, la maggioranza di coloro che finiscono preda di tale sistema di schiavitù è priva di qualsiasi documento di riconoscimento. Qualora una persona ne sia in possesso, è frequente che esso venga confiscato in modo da costringere i lavoratori a rimanere sulle imbarcazioni. Per lo stesso motivo, la paga viene spesso trattenuta dal datore di lavoro.

Il traffico di migranti è il risultato della mancanza di un adeguato meccanismo di controllo e della forte corruzione presente nell’industria ittica. La combinazione dei due elementi ha portato ad esacerbare l’atto stesso della pesca (il cosiddetto “overfishing”), generando una forte pressione economica che ha, quindi, alimentato l’uso di manodopera coatta. La mancanza di pesce, infatti, porta alla necessità di passare più tempo in mare, di pescare illegalmente in acque territoriali di altre nazioni e – in virtù di un abbattimento dei costi – di usare sistemi di traffico di esseri umani per reperire forza lavoro.

A seguito delle numerose condanne da parte di gruppi di attivisti e della comunità internazionale, il governo militare thailandese ha recentemente iniziato ad imporre sostanziali regolamentazioni e controlli alle navi adibite alla pesca commerciale. Le nuove misure comprendono la presenza di navi da pattuglia, l’utilizzo di sistemi GPS per il tracciamento dei vascelli ed ispezioni nei porti per assicurare il rispetto delle regolamentazioni tramite controlli dei contratti dei lavoratori. Dal 2017, il nuovo Sistema “Port in – Port out” (PIPO) ha introdotto verifiche più stringenti tramite ispezioni all’arrivo e alla partenza delle imbarcazioni da un porto, aumentando il costo delle multe per violazione ed obbligando i proprietari delle imbarcazioni a dotarsi di un’adeguata tecnologia di comunicazione a bordo, oltre a dover permettere ai lavoratori di contattare regolarmente i propri familiari. Il governo ha, inoltre, imposto il divieto di imbarco per lavoratori al di sotto dei 18 anni di età ed iniziato un percorso di collaborazione con l’ILO, l’Organizzazione internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite, al fine di combattere sfruttamento e traffico di esseri umani.

Ciononostante, numerose critiche sono state mosse al sistema di monitoraggio introdotto dal governo thailandese: la stessa Human Rights Watch ha frequentemente denunciato l’inefficacia del sistema PIPO contro sfruttamento e traffico di esseri umani, data dal fatto che le ispezioni sono portate avanti in modo superficiale ed i lavoratori sono raramente identificati. Concretamente, i provvedimenti adottati per rafforzare le leggi a protezione dei lavoratori sul fronte dell’industria ittica sono progressivamente scemati in intensità da gennaio 2019, a causa della dichiarazione dell’Unione Europea di non voler interrompere i commerci con la Thailandia. Ciò ha causato una crescente sfiducia da parte dei pescatori stessi nella possibilità di vedere garantiti i propri diritti. Numerosi gruppi di attivisti hanno infatti denunciato quanto sia diffusa la riluttanza nel fare rapporto riguardo agli abusi subiti, a causa della paura di ritorsioni da parte dei datori di lavoro e delle autorità. Ancora nel marzo 2020, una coalizione di 60 gruppi della società civile – la Seafood Working Group – ha sollecitato gli U.S.A. a retrocedere la Thailandia nella graduatoria stilata all’interno della relazione annuale sulla tratta di esseri umani, dopo che nel 2019 il paese era stato catalogato come “Tier 2” (dove “Tier 3” è il livello più basso) nel report “Trafficking in Persons” (TIP) del Dipartimento di Stato statunitense.

Fonti consultate per il presente articolo:

Thailand’s slave fishermen: What’s needed to solve the crisis? | NGO | Al Jazeera

Thailand’s seafood slavery: Why the abuse of fishermen just won't go away - CNA (channelnewsasia.com)

Thailand found failing to log fishermen's complaints of abuse and slavery - CNA (channelnewsasia.com)

Forced to fish: Slavery on Thailand's trawlers - BBC News

Thailand's seafood industry: a case of state-sanctioned slavery? | Felicity Lawrence | The Guardian

Environmental Justice Foundation | Thailand's Seafood Slaves (ejfoundation.org)

Condividi il post

L'Autore

Sara Scarano

Categorie

Tag

Thailandia