La pena di morte prevista per le donne adultere in Asia

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  Redazione
  20 febbraio 2020
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La pratica della sanzione capitale è, ad oggi, comune a un gran numero di Stati, malgrado i dubbi e le perplessità sollevate in tema di violazione dei diritti umani e della finalità della rieducazione delle sanzioni penali.

Tra i diversi meccanismi di tutela previsti in tema di pena di morte, si richiama il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, siglato nel 1976 nell’ambito delle Nazioni Unite.

Ai sensi dell’art. 6 del Patto: “Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita. Nei Paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi […]. Tale pena può essere eseguita soltanto in virtù di una sentenza definitiva, resa da un Tribunale competente. […] Ogni condannato a morte ha il diritto di chiedere la grazia o la commutazione della pena. L’amnistia, la grazia o la commutazione della pena di morte possono essere accordate in tutti i casi. Una sentenza capitale non può essere pronunciata per delitti commessi dai minori di 18 anni e non può essere eseguita nei confronti di donne incinte”.

Ad oggi, sono 173 gli Stati firmatari del Trattato delle Nazioni Unite, adottato a New York nel 1976. Tra i Paesi che attualmente non hanno ratificato la Convenzione, vi figurano l’Arabia Saudita, il Bhutan, la Malesia, il Myanmar, Singapore, e altri.

In Arabia Saudita, anche se il reato di adulterio è arduo da dimostrare (poiché servono quattro testimoni oculari dell’atto di penetrazione), vi è un uso discriminatorio della pena capitale, in quanto la legge è applicata maggiormente nei confronti delle donne. L’ultima notizia di condanna di una donna per adulterio risale al 20 novembre 2015, anche se la condanna è stata, poi, ridotta nel processo di appello a tre anni di reclusione.

In Brunei (altro Paese a non aver ratificato il Patto sui Diritti Civili e Politici), nell’aprile 2019 è stata introdotta la pena capitale per il reato di adulterio, come parte dell'attuazione, fortemente criticata, di un nuovo codice penale basato sulla Sharia.

Tuttavia, a destare maggiori perplessità sono le normative vigenti in tutti quei Paesi che, invece, risultano membri del Trattato del 1976.

In Iran, le donne condannate per il delitto di adulterio vengono giustiziate attraverso la pratica barbara e feroce della lapidazione; nel 2013, infatti, il Consiglio dei Guardiani ha previsto il reinserimento della lapidazione come pena esplicita per l’adulterio.

Nonostante nel 2002 il Governo di Teheran avesse fatto intendere di voler abolire - o quanto meno limitare - le ipotesi di pena capitale, ad oggi vi sono circa una decina di donne nel braccio della morte, accusate di adulterio (anche se molti casi di lapidazione vengono, spesso, svolti in luoghi deserti e occultati). In particolare, per l’accusa è sufficiente la dichiarazione da parte di un Giudice, mentre la dichiarazione di una donna, per poter essere considerata attendibile, necessita della conferma da parte di almeno due uomini. È evidente, pertanto, che la pronuncia di condanna, in questi casi, sia esito di un processo ingiusto e, perciò, in palese violazione con le previsioni del Patto sui Diritti Civili e Politici su richiamato. Ai sensi dell’articolo 132, comma 3, del Codice Penale iraniano, un uomo o una donna possono essere lapidati a morte per relazioni extraconiugali reiterate. Il nuovo codice prevede, inoltre, che nei casi di condanna emessa in base alla formula vaga e astratta del “libero convincimento del Giudice”, la lapidazione può essere sostituita dalla punizione corporale di 100 frustate.

In Afghanistan, nel 2013 era stato previsto un progetto di Codice Penale relativo ai “crimini morali”, che prevedeva per gli adulteri sposati la lapidazione e le frustate per gli adulteri non spostati. Nonostante ciò, dopo la caduta del regime dei talebani nel 2001, nel Paese non è stata emessa nessuna condanna a morte per reati come l’adulterio, previsti dalla legge islamica ma senza nessuna corrispondenza con norme di diritto positivo.

In Pakistan, mentre il codice penale non prevede la pena di morte per adulterio, questo è, tuttavia, un crimine nell’ambito delle “punizioni coraniche” del 1979, punibile con la pena di morte e la lapidazione, seppure solo la detenzione e le punizioni corporali siano state poi in concreto applicate. Anche in questo caso, è necessaria la testimonianza di quattro persone per provare una violenza sessuale; in caso contrario, la vittima rischia l’incriminazione per adulterio. Secondo le regole tribali, poi, nei casi in cui le donne (considerate di proprietà degli uomini) vengano sospettate di relazioni extraconiugali, l’onore richiede che un membro della famiglia le uccida.

Nonostante gli allarmanti dati sopra richiamati, vi è stata recentemente una buona notizia in tema di pena capitale per reati di adulterio. Nel 2018, infatti, la Corte Suprema Indiana ha stabilito che l’adulterio non è più considerato un crimine, a fronte di una legge coloniale risalente a 158 anni fa.

Per quanto concerne il tema molto delicato delle esecuzioni capitali di donne in stato di gravidanza, si è visto che il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici vieta in assoluto la pena di morte nei confronti di donne incinte. Ebbene, gli Stati che si sono adeguati a tale disposizione vietando, pertanto, l’esecuzione delle donne in stato di gravidanza, si dividono in due categorie: vi sono Paesi che prevedono un ritardo dell’esecuzione, posticipandola dopo il parto, e Stati che, invece, commutano la pena capitale in una pena detentiva a vita o inferiore (India, Laos, Malaysia, Singapore, Sri Lanka).

Il Bahrein, ad esempio, prevede un periodo di rinvio dell’esecuzione di 3 mesi dopo il parto; le leggi della Tailandia, invece, permettono un rinvio fino a 3 anni. In Iran e in Corea del Sud, l’esecuzione è rinviata per un periodo indefinito dopo il parto.

Oltre al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (le cui disposizioni, come si è visto, spesso non vengono rispettate puntualmente), vi è poi un’ulteriore forma di tutela per i Paesi asiatici e a maggioranza musulmana: la Carta Araba sui Diritti dell’Uomo. All'interno di quest'ultima, all’articolo 12, si afferma che non può essere giustiziata una donna incinta prima del parto, né la “madre fino ai due anni del figlio”. Gli Stati membri che hanno ratificato la Carta Araba e rispettano, quindi, il divieto di esecuzione di donne incinte sono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e lo Yemen.

A cura di Simona Maria Destro Castaniti

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