La crisi dei microchip: problema da gamers o globalizzazione in pericolo?

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  Davide Bertot
  21 luglio 2021
  5 minuti, 12 secondi

E’ ormai noto anche ai meno tecnologici di noi che la maggior parte di ciò che ci circonda, dai computer alle automobili agli elettrodomestici ai semafori, contiene microchip, ovvero i supporti semiconduttori di dimensioni microscopiche dei circuiti elettronici integrati. Tuttavia, la loro presenza così capillare nelle nostre vite li rende al contempo banali e fondamentali, e quando i chip scarseggiano gli oggetti elettronici sono i primi a risentirne: la PlayStation 5, console di ultima generazione della giapponese Sony lanciata sul mercato a fine 2020, è da molti mesi praticamente introvabile, e mettere le mani su una PS5 anche al triplo del prezzo di lancio è cosa rara.

Ma perché scarseggiano i microchip? E perché dovrebbe preoccuparci?

Domanda e offerta di microchip

Il Covid-19 ha cambiato drasticamente i consumi globali, portando fra le altre cose ad un sostanziale azzeramento delle vendite nel settore automotive nel 2020. Questo ha comportato una diminuzione importante della produzione di automobili, con un effetto analogo per tutte le componenti della sua enorme filiera, fra cui i semiconduttori. Tuttavia, la domanda di chip non è diminuita, ma anzi aumentata a causa dell’aumento della domanda di prodotti elettronici e di intrattenimento largamente utilizzati nei periodi di lockdown.

Il problema è stato semmai l’opposto: la crisi del settore automobilistico è rientrata e la sua domanda è tornata quasi ai livelli pre-pandemia, ma a quel punto erano i microchip a scarseggiare. Infatti, la domanda di semiconduttori è aumentata esponenzialmente, mentre l’offerta ha faticato a stare al passo, portando alla cosiddetta crisi dei microchip, che continua tuttora e che è prevista perdurare almeno fino alla fine del 2021. Persino Apple ha dovuto ritardare il tanto atteso lancio dell’iPhone 12, proprio per paura che non ci fossero abbastanza chip per supportare la produzione.

Ma perché non si può semplicemente aumentare la produzione dei microchip per raggiungere la domanda? Principalmente per due ragioni: l’effetto frusta generato dal panico dei big tech di fronte alla scarsità di semiconduttori, e i problemi strutturali del mercato dei microchip.

Le aziende come i consumatori di fronte alla scarsità

Così come hanno fatto notizia a inizio pandemia il panico generale e la conseguente corsa alla carta igienica o alla pasta nei supermercati, che hanno portato questi prodotti ad essere momentaneamente esauriti in svariate zone, anche il mercato dei microchip è stato vittima del cosiddetto effetto frusta: se anche solo pochi individui temono l’imminente scarsità di un prodotto e iniziano a fare scorte, questo genera panico e costringe anche i più razionali a dover fare scorte per paura di rimanere a secco a causa del comportamento sconsiderato dei primi, portando la paura iniziale ad essere una profezia che si auto-avvera.

E’ successo ai consumatori così come alle compagnie tecnologiche, che hanno piazzato ordini sempre più importanti per timore di uno stop alla propria produzione. Questo, tuttavia, non ha fatto che peggiorare le cose, perché il panico generato ha portato anche le altre compagnie ad aumentare i propri ordini, finendo per sorpassare la capacità produttiva mondiale. Le aziende produttrici di microchip hanno tentato di calmare i propri acquirenti in modo che non aumentassero eccessivamente i propri ordini, senza però riuscire a sbloccare l’intasamento del mercato. Persino alcuni stati, come la Cina, sono sospettati di star facendo scorte di microchip, per salvaguardare la produzione interna a discapito di quella estera finché la crisi non sarà passata.

Il mercato dei microchip

Per produrre microchip all’avanguardia sono necessari tecnologie e know-how molto specialistici, oltre che di una gran quantità di denaro (un impianto di produzione costa intorno ai 20 miliardi di dollari). Inoltre, è un processo molto lungo, che in condizioni ottimali richiede fra i tre e i sei mesi dal momento dell’ordine a quello di consegna.

Date le enormi difficoltà tecniche ed economiche e le scarse probabilità di successo, è chiaro come sia estremamente difficile entrare e anche rimanere nel mercato dei semiconduttori, che sta diventando sempre più un monopolio: se nel 2002 le compagnie al mondo in grado di produrre il chip più piccolo in commercio erano venticinque, dal 2016 l’intero mercato è in mano principalmente a tre aziende (TSMC, Samsung e Intel). E dal momento che la più grande di queste, TSMC (con sede a Taiwan), da sola copre circa il 65% del mercato, viene sempre più a crearsi un effetto imbuto: tutta la tecnologia del mondo deve passare per una di queste tre aziende, e in particolare per quella controllata da Taiwan, rendendo evidente la crescente importanza strategica di quella che per la Cina è una sua provincia, e quindi la crescente tensione internazionale sull’argomento.

Molti Stati hanno ormai deciso che il divario crescente fra domanda e offerta di semiconduttori, esacerbato dalla pandemia, richiede misure autarchiche volte a potenziare la produzione locale e assicurarsi una fornitura di microchip a discapito del commercio internazionale. A marzo 2021 la Cina ha individuato l’industria dei semiconduttori come uno degli obiettivi strategici del suo piano quinquennale di sviluppo, per arrivare ad avere la capacità di produrre internamente il suo fabbisogno di chip. Allo stesso modo, a giugno 2021, il Senato americano ha approvato una legge che prevede un piano di investimenti pubblici, di cui 52 miliardi per favorire l’industria di semiconduttori e microprocessori, per rendersi più indipendenti dal resto del mondo.

La pandemia ci ha mostrato quanto il nostro mondo sia interconnesso ma proprio per questo fragile, e di quanto sia ancora facile “fermare” la globalizzazione. Se oggi il problema è più che altro legato alle console, alle schede video e alle automobili, è sensato ipotizzare che in futuro altre industrie strategiche potrebbero essere colpite, cosa che lascerebbe molti stati completamente dipendenti da pochi Paesi chiave (ieri erano i Paesi dell’OPEC per il petrolio, oggi è Taiwan per i microchip, domani chissà). Proprio per questo, il mondo globalizzato sta entrando pian piano in crisi e sembra muoversi verso protezionismi, guerre commerciali e autarchia, con nazioni sempre più invogliate a premere un pulsante e rendersi completamente indipendenti dal resto del mondo.

https://www.pexels.com/fr-fr/photo/circuit-imprime-vert-et-gris-57007/

https://www.youtube.com/watch?v=Goh7kRpcQE4

https://www.treccani.it/enciclopedia/microchip/

https://www.corriere.it/economia/generazione-5g/notizie/col-5g-traffico-diventa-intelligente-con-semafori-che-cambiano-colore-3de2958c-38b1-11eb-a3d9-f53ec54e3a0b.shtml

https://www.everyeye.it/notizie/perche-playstation-5-non-trova-online-negozi-502095.html

https://formiche.net/2020/10/microchip-cosi-gli-stati-uniti-guardano-gia-al-futuro/

https://economictimes.indiatimes.com/news/international/business/why-china-cant-fix-the-global-microchip-shortage/articleshow/81286545.cms?from=mdr

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