La Corte Suprema degli Stati Uniti: dalla nomina di Amy Coney Barrett alle future decisioni

Dalla la nomina di Amy Coney Barrett, la più alta corte federale è finita ultimamente sotto i riflettori, tirata in ballo anche per le elezioni presidenziali. La questione dell’Obamacare farà aumentare ancora di più l’attenzione mediatica

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  Redazione
  24 novembre 2020
  6 minuti, 15 secondi

A cura di Federico Quagliarini

La Corte Suprema degli Stati Uniti, la più alta corte federale americana, sta attraversando un momento particolare della sua storia, ed i motivi sono molteplici. La nomina del giudice Barrett ha determinato uno spostamento della Corte verso l’asse repubblicano che non si verificava dagli anni Trenta. Nelle ultime settimane, inoltre, è stato ipotizzato un possibile ruolo della Corte nelle elezioni presidenziali dopo che il presidente Trump ha più volte denunciato errori e brogli elettorali nello scrutinio dei voti, dichiarando di volerle far ricorso. Infine, i giudici di Washington dovranno affrontare (di nuovo) una questione di costituzionalità sulla riforma sanitaria voluta dall’ex presidente Obama.

LA NOMINA DI AMY CONEY BARRETT

Lo scorso settembre, dopo la morte del giudice progressista Ruth Bader Ginsburg, Donald Trump ha nominato al suo posto Amy Coney Barrett, conosciuta invece per le sue idee molto conservatrici, tra cui quella contro l’aborto. La stessa Barrett viene considerata inoltre come una "orginalista", in quanto crede che il testo della carta costituzionale debba essere intrepretato secondo l’originaria interpretazione dei Padri Costituenti. Questo approccio è maturato grazie all’esperienza della Barrett come assistente dell’ex giudice supremo Antonin Scalia, anch’egli considerato un orginalista.

La sua nomina di fatto ha suscitato non poche polemiche considerando che proprio quattro anni prima il Senato, sempre a maggioranza repubblicana, si era rifiutato di ratificare la nomina di un giudice proposto dal presidente Obama in quanto tale designazione precedeva temporalmente di poco le elezioni presidenziali. La nomina del giudice Barrett è stata comunque ratificata dal Senato lo scorso 27 ottobre.

La Corte Suprema degli Stati Uniti si ritrova dunque una posizione molto più favorevole ai repubblicani (6 giudici su 9). Sarebbe dunque naturale chiedersi se tale scostamento potrebbe in qualche modo avere degli effetti sulla futura amministrazione Biden.

Uno scenario probabile potrebbe ripercorrere quanto accaduto negli anni Trenta, quando il presidente Franklin D. Roosevelt si vide rigettare per ben due volte dalla Corte Suprema il New Deal, ovvero il suo piano economico per la ripresa dopo la grande depressione. Tale contesto appare possibile per quanto riguarda le politiche ambientali, da sempre osteggiate dall’opinione pubblica più conservatrice, e su cui Biden ha puntato molto in campagna elettorale.

IL RUOLO NELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI

Le elezioni dello scorso 3 novembre hanno visto la vittoria del candidato democratico a discapito del presidente uscente Trump. Quest’ultimo, però, non ha di fatto riconosciuto la sconfitta. A differenza di molti suoi predecessori non ha infatti pronunciato il cosiddetto concession speech, spezzando la tradizione di una transizione pacifica e costruttiva. Allo stesso tempo Trump ha denunciato irregolarità nello scrutinio del voto e ha annunciato tramite Rudy Giuliani, suo avvocato ed ex sindaco di New York, una serie di ricorsi per sovvertirne l’esito. Tra di questi non è mancato anche quello alla Corte Suprema.

A dire il vero ancora prima del voto la Corte era già stata interpellata in merito. L’attuale pandemia di COVID-19 ha incentivato molti elettori, per la stragrande maggioranza democratici, a votare per posta. La maggioranza conservatrice alla Corte, anche grazie alla nomina della Barrett, aveva stabilito che in Wisconsin (Stato in cui era difficile dare un pronostico certo) le schede elettorali, arrivate il giorno dopo le elezioni, non sarebbero state conteggiate nel voto finale.

Dopo la sconfitta alle elezioni, Trump ha più volte annunciato di voler adire la Corte. Tuttavia questo ricorso non è immediato. La procedura prevede anzitutto il giudizio di fronte ad un tribunale federale, successivamente un ulteriore giudizio di appello alla corte suprema del singolo stato e solo alla fine il ricorso alla Corte Suprema nazionale.

Non sarebbe la prima volta che una questione simile si trova di fronte alla Corte Suprema. Nel 2000 i risultati in Florida risultarono decisi per l’attribuzione dei delegati. La battaglia legale in quel momento riguardava il riconteggio dei voti, previsto per legge, che stava a mano a mano attribuendo la vittoria al democratico Al Gore. Tuttavia la questione finì di fronte alla Corte Suprema, la quale stabilì lo stop del riconteggio assegnando la vittoria al futuro presidente Bush, che vinse quindi in Florida e ottenne i 271 delegati per essere eletto presidente (uno in più di quanto necessario per vincere). Il suo sfidante Al Gore accettò comunque la decisione della Corte.

Vent’anni dopo però la situazione è molto diversa. Lo scrutinio finale ha assegnato sia in quanto a delegati che in quanto a voto popolare un vantaggio ben più ampio di quello che si prefigurava nelle prime elezioni del millennio. Nel 2000 infatti lo scarto tra Bush e Al Gore era appena di 533 voti in Florida mentre oggi, Biden ha un vantaggio di oltre sei milioni di voti e di ben 306 delegati contro i 232 di Trump. Non sarà solo il riconteggio dei voti di un singolo Stato a cambiare l’esito nazionale.

A rendere ancora più improbabile un ricorso alla Corte Suprema sono i continui insuccessi che il presidente uscente ha collezionato nelle ultime settimane nei tribunali. Sono state presentate azioni legali in diversi Stati tra cui Michigan, Wisconsin, Arizona e Pennsylvania, ma nessuno di questi è stato accolto. I ricorsi del presidente uscente non hanno ottenuto riscontro nei tribunali principalmente perché non sono state presentate delle prove in merito.

LA QUESTIONE DELL’OBAMACARE

Da ultima, ma non da sottovalutare, è la questione di costituzionalità sollevata sul Patient Protection and Affordable Care Act, meglio nota come Obamacare, ovvero la riforma sanitaria introdotta nel marzo 2010.

Da sempre è considerata una spina nel fianco per l’opinione pubblica conservatrice e i Repubblicani già in passato avevano tentato di smontarla. Il tentativo, tuttavia, era fallito nell’estate 2017 al Senato, grazie anche al voto decisivo di John McCain, casualmente avversario dello stesso Obama alle presidenziali del 2008.

Non è la prima volta che la questione finisce di fronte alla Corte Suprema. Nel 2012 una maggioranza di 5 a 4 ha stabilito la costituzionalità dell’obbligo dei cittadini di acquisire una polizza assicurativa sanitaria. Nel 2015 invece la Corte ha respinto un ricorso sulle sovvenzioni statali in merito agli aiuti per acquistare una polizza assicurativa.

Ora la Corte si ritrova di nuovo ad affrontare una questione di costituzionalità, questa volta concernente una penalità fiscale rimossa dall’amministrazione Trump. Una decina di Stati, a guida repubblicana, ha presentato un ricorso alla Corte Suprema sostenendo che una parte di tagli fiscali del 2017 renda totalmente incostituzionale il testo dell’Obamacare. Uno di questi tagli riguarda appunto una penalità fiscale per coloro che non abbiano acquistato una polizza assicurativa. L’eliminazione di tale penalità costituirebbe, secondo la tesi degli Stati, una condizione sufficiente per dichiarare incostituzionale la riforma.

Tuttavia nella prima udienza dello scorso 10 novembre, il giudice Brett Kavanaugh ed il capo della Corte John Roberts, hanno lasciato trapelare di non essere inclini a minare l’equilibrio della legge. Secondo loro infatti la legge che ha tolto la penalità fiscale non invaliderebbe nella sua interezza la riforma sanitaria. A detta di molti analisti, anche questa volta, l’Obamacare non dovrebbe subire alcuna modifica.



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