Il genocidio di Srebrenica

Un’analisi dei crimini durante il luglio del ’95

  Articoli (Articles)
  Alice Stillone
  27 settembre 2021
  6 minuti, 8 secondi

A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, i popoli degli “slavi del sud” convissero per molti decenni nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, guidata da Tito e composta da sei Repubbliche (Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia) e due province autonome (Kosovo e Vojvodina). In particolare, la Bosnia ed Erzegovina si caratterizzava per non avere una netta maggioranza etno-nazionale ed infatti questa era composta da tre gruppi etnici principali: i Serbo-bosniaci, i Croato-bosniaci e i Bosgnacchi. Dal punto di vista religioso e culturale i tre gruppi si distinguevano in maniera sostanziale, poiché i Serbo-bosniaci erano di religione cristiana ortodossa, i Croato-bosniaci erano cattolici, mentre i Bosgnacchi musulmani.

Alla fine degli anni 80, a seguito della morte di Tito, tra le repubbliche iniziarono a verificarsi una serie di crisi economico-sociali che inesorabilmente spingevano verso la disgregazione della Repubblica Socialista Federale. Contemporaneamente a ciò, alcuni nuovi leader come Milošević iniziarono a introdurre nel contesto jugoslavo discorsi nazionalisti che acuirono la crisi identitaria oltre che a quella politica, economica ed ideologica.

Tale situazione di incertezza generale aveva portato, ad inizio degli anni 90, alle prime dichiarazioni di indipendenza di due delle sei repubbliche, Slovenia e Croazia, da cui era derivato uno scontro armato tra l’esercito della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia sotto controllo serbo e la Slovenia e la Croazia.

Una situazione simile si verificò in Bosnia quando nel novembre del 1991 un politico croato-bosniaco proclamò la Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia (mai riconosciuta ufficialmente). Egli fu seguito dal leader nazionalista serbo bosniaco Radovan Karadzić che a sua volta proclamò l’indipendenza della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (tutt’ora esistente).

Alla fine del 1991 Milošević (leader serbo) e Tudman (leader croato) si scontrarono in Croazia a seguito dell’indipendenza di tale repubblica, e nel frattempo tendevano a spartirsi segretamente la Bosnia che era rimasta uno stato di "tutti e di nessuno" a causa della sua particolare composizione etnica.

In questo contesto storico, incerto e costellato da scontri armati, si consumò uno dei peggiori massacri della storia d’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.

L’inizio ufficiale della guerra in Bosnia viene fatto risalire al 6 aprile del 1992, giorno in cui la Comunità Europea (CE) riconobbe l’indipendenza di Slovenia, Croazia e Bosnia ed Erzegovina. A partire da quel momento iniziarono i bombardamenti, l’assedio di Sarajevo, le sistematiche violenze sessuali nei confronti delle donne e dall’11 luglio anche quello che la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dichiarerà il genocidio di Srebrenica.

Il genocidio fu perpetrato principalmente da Ratko Mladić, un generale della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, contro la popolazione musulmana residente a Srebrenica, una delle poche cittadine a maggioranza musulmana presente su una parte della Bosnia quasi del tutto “serbizzata”.

A seguito di un’offensiva serba, Srebrenica viene dichiara “zona protetta” da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (CdS) che obbligava le forze armate presenti in loco a demilitarizzare completamente la zona e poneva l’enclave sotto “protezione” di un compound delle Nazioni Unite.

Tuttavia, nonostante la suddetta risoluzione del CdS, la zona non è stata demilitarizzata e infatti il 9 luglio 1995 Srebrenica venne circondata da truppe dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina che l’11 luglio entrò nella città. Bastarono pochi giorni per massacrare migliaia di uomini con l’intento di distruggere tale minoranza musulmana e di cancellarne le tracce da tutta la Bosnia. Dall’11 luglio i serbi di Bosnia separarono gli uomini musulmani dalle donne, ufficialmente con l’intento di interrogarli, ma praticamente con l’intento di ucciderli e seppellirli in fosse comuni.

Un episodio avvenuto in quei giorni prova uno dei più gravi fallimenti dell’ONU: dalla mattina dell’11 luglio, il compound ONU iniziava a trasferire molti musulmani di Srebrenica in pericolo presso la sede dell’UNPROFOR, forza armata di protezione delle NU istituita con la risoluzione del CdS n. 743 del 21 febbraio 1992 col fine di “creare le condizioni di pace e sicurezza necessarie per raggiungere una soluzione per la crisi jugoslava”.

In quei giorni si tennero vari incontri tra i responsabili dell’UNPROFOR, i rappresentanti dei musulmani bosniaci e il generale Mladić, terminati con un accordo secondo il quale i musulmani sarebbero usciti dalla base di UNPROFOR a causa della scarsità di cibo e acqua, rimanendo protetti dalla forza di protezione dell’ONU e senza essere oggetto di attacchi militari da parte dell’esercito di Mladić. Il fallimento consiste nel fatto che, dopo aver pattuito tale accordo, il trasporto dei musulmani fuori dalla base ONU non avvenne assolutamente in maniera pacifica, poiché l’esercito dei serbi di Bosnia assalì le autovetture che trasportavano i musulmani, deportandoli in campi di detenzione o uccidendoli, di fronte alle forze delle NU incapaci di agire.

Anni dopo la Bosnia intentò un procedimento giudiziario contro la Serbia e il Montenegro (ai tempi dell'inizio del processo ancora un’unica entità) davanti alla Corte Internazionale di Giustizia la quale rilevò la base della sua giurisdizione nell’art. IX della Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio dell’8 dicembre 1948. Tale articolo prescriveva che “Le controversie tra le Parti contraenti, relative all’interpretazione, all’applicazione o all’esecuzione della presente Convenzione, comprese quelle relative alla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio o per uno degli altri atti elencati nell’articolo III, saranno sottoposte alla Corte internazionale di Giustizia, su richiesta di una delle parti alla controversia.” Poiché la Bosnia riteneva che la Serbia fosse colpevole di aver commesso uno degli atti costituenti il crimine di genocidio di cui all’art. III della Convenzione, ed essendo sia la Bosnia che la Serbia Stati Parte della medesima Convenzione, la Bosnia aveva richiesto alla CIG di pronunciarsi a riguardo.

Il crimine di genocidio, stando all’art. II della Convenzione, deve costituirsi sia dell’esecuzione materiale di uno degli atti di cui alle lett. a)-e) dell’art. II, sia dell’intenzionalità di distruggere, in tutto in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale (c.d. dolus specialis o elemento soggettivo).

Proprio per la “rigidità” di tale definizione giuridica, la CIG ha rilevato l’intenzionalità di distruggere il gruppo dei musulmani di Bosnia in quanto tale, solamente negli atti commessi nella breve finestra temporale di luglio presso l’enclave di Srebrenica, ritenendo la Serbia responsabile della violazione dell’obbligo di prevenzione del crimine di genocidio.

Con la risoluzione 808 (1993) il CdS dell’ONU istituisce il Tribunale Penale Internazionale ad hoc per l’ex Jugoslavia, con il fine di giudicare i responsabili per i crimini internazionali commessi durante le guerre discusse sopra. Il generale Mladić, considerato uno dei principali responsabili, è stato processato da tale tribunale e condannato all’ergastolo. Tuttavia, attualmente i leader politici della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina non hanno ancora riconosciuto il genocidio di Srebrenica nonostante il clima islamofobico tuttora dilagante e le divisioni tra i vari gruppi nazionali presenti all’interno del paese.

Fonti utilizzate per il presente articolo:

  • Ponso M., Il Problema della definizione di genocidio, 2019, Human Security.
  • https://unsplash.com/photos/LheHIV3XpGM
Condividi il post

L'Autore

Alice Stillone

Categorie

Diritti Umani

Tag

gencidio CIG ONU Diritti umani srebrenica jugoslavia bosnia e erzegovina Serbia