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Il digitale come strumento di riparazione post-coloniale nel settore museale

Negli ultimi anni, nel settore dell’arte si è sentito sempre più parlare di processi di restituzione o riparazione. Cosa significa esattamente?

I processi di restituzione sono tutte quelle trattative che coinvolgono più Paesi e istituzioni museali e che hanno come oggetto beni di interesse artistico e culturale che sono stati sottratti dal territorio di origine senza il consenso delle comunità da cui provengono, spesso nel contesto imperialista.

Questo tipo di trattative è particolarmente delicato perché tocca molto più della semplice restituzione. Viene portato alla luce il lascito emotivo di un capitolo della storia che ha rappresentato una grande ingiustizia nei confronti di Paesi e popoli che tutt’ora soffrono le conseguenze di ciò che è accaduto.

La situazione, inoltre, non è di certo facilitata dall’atteggiamento che le istituzioni museali occidentali hanno spesso adottato in merito a questo genere di vicenda. Basta pensare a come il British Museum sia arrivato solo di recente a una sorta di accordo con il governo nigeriano per il furto dei famosi Bronzi del Benin e a come si rifiuti tutt’oggi di dialogare con la Grecia per i Fregi del Partenone.

Le trattative di restituzione sono un’area grigia del diritto dei beni culturali perché è difficile attestare i movimenti di proprietà di questi oggetti nella maggior parte dei casi, ma soprattutto perché non esistono leggi internazionali che regolino le restituzioni, ma solo direttive delle Nazioni Unite che i singoli Stati possono decidere liberamente se implementare nel proprio diritto o meno.

Per dire le cose chiaramente, l’attuale realtà delle trattative di riparazione è che i Paesi ex-colonialisti possono decidere di ignorare le accuse di furto e continuare a trattenere le opere con la scusa di poter provvedere alle migliori condizioni di conservazione possibili.

Open Restitution Africa, la piattaforma che organizza i dati sulle restituzioni

Fortunatamente, negli ultimi anni sono nate diverse realtà che si interessano della questione e che, spesso, operano dai Paesi di origine delle opere sottratte. Una di queste piattaforme è Open Restituiton Africa (ORA).

ORA è un progetto nato nel 2020 che ha come scopo quello di raccogliere e condividere dati aggiornati sullo stato delle trattative di restituzione che coinvolgono il continente africano.

L’iniziativa è ancora nella fase di sviluppo iniziale, quella della raccolta dati. Oltre ad utilizzare dati accessibili liberamente, ORA sta coinvolgendo i musei africani invitandoli ad aggiungere le proprie informazioni al database.

La piattaforma sarà accessibile dal 2023 e sarà disegnata non solo per l’utilizzo dei professionisti di settore, ma anche dei cittadini africani che potranno, finalmente, essere reintrodotti nella conversazione generata attorno agli oggetti che trasmettono la memoria della loro cultura.

Anche se non possono garantire la restituzione fisica, progetti come questo servono per fare un primo passo di sensibilizzazione del pubblico interessato al fine di dare maggiore rilevanza alle richieste di restituzione.

Indigenous Knowledges, progetto di decolonizzazione della Wellcome Collection

La Wellcome Collection di Londra è un libreria e realtà museale fondata nel primi anni del ‘900 da Sir Henry Wellcome, imprenditore nel settore farmaceutico. Lo scopo della collezione è offrire al mondo una prospettiva sulla storia globale della medicina. Tuttavia, la collezione ospita numerosi pezzi appartenenti a culture indigene esposti, per troppo tempo, con un punto di vista marginalizzante che prende in considerazione solo l’interpretazione eurocentrica della medicina.

L’anno scorso il museo ha riconosciuto le sue responsabilità e ha deciso di rimediare lanciando Indigenous Knowledges, un progetto che punta a riconnettere i pezzi della collezione con voci che conoscono la storia e possono offrire informazioni culturalmente accurate.

I partner del progetto sono il Centre for Indigenous and Settler Colonial Studies dell’Università di Kent, la Kinyaa’áanii Charlie Benally Library del Diné College, il South West Center dell’Università dell’Arizona e Local Contexts - organizzazione che supporta le comunità indigene nel gestire la loro proprietà intellettuale e patrimonio culturale.

La Wellcome Collection si è servita della consulenza di Local Contexts per inserire all’interno del suo catalogo un sistema di etichette digitali che permettono ai visitatori di scoprire il contesto culturale degli oggetti esposti direttamente dalle voci delle comunità da cui provengono.

Questi progetti testimoniano il potenziale degli strumenti digitali nel ricostruire la memoria collegata agli oggetti vittima di appropriazione da parte di altri gruppi culturali. Nonostante ciò, non mancano i punti di vista critici riguardo a questo tipo di operazioni, soprattutto quando promosse da istituzioni museali che di fatto continuano a rifiutarsi di impegnarsi in una trattativa di restituzione.

In questi casi i progetti di restituzione digitale possono essere considerati specchietti per le allodole finalizzati a comunicare un’immagine di impegno e rispetto culturale che, tuttavia, si dimostra esistere solo sul piano virtuale quando non viene fatto nulla in merito alla restituzione fisica del bene.

Fonti consultate per il seguente articolo:

"One Key To Driving Cultural Repatriation? It’s Data, Says Open Restitution Africa" - Jing Culture & Commerce

https://jingculturecommerce.com/wellcome-collection-indigenous-knowledges/


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  • L'Autore

    Mariam Ndiaye

Categorie

Temi Tecnologia ed Innovazione


Tag

Arte Digitale Riparazioni Restituzioni OpenRestitutionAfrica IndigenousKnowledges UK Africa Comunità indigena WellcomeCollection

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