Diritti umani e libertà fondamentali soffrono di molteplici violazioni nei Paesi del Medio Oriente.
In effetti, i Paesi in questione si posizionano in fondo alla classifica del “Global Gender Gap Report”. Secondo i dati del 2018, 13 su 17 Paesi del Medio Oriente sono sotto la media globale e lo Yemen, in particolare, si posiziona all’ultimo posto. Tutto ciò sta ad indicare che non si è ancora raggiunta l’emancipazione femminile in gran parte degli ambiti di questi Paesi.
Ma è bene fare una considerazione di base: la questione risente fortemente del concetto di contestualizzazione. È giusto infatti considerare, prima di tutto, che quel che per noi occidentali può sembrare bianco, per altri può sembrare nero. In ugual modo si può parlare di diritti.
Per noi occidentali esistono dei diritti che sono fondamentali, riconosciuti da convenzioni di grande importanza, come la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” del 1948, firmata dai Paesi che in seno all’ONU hanno accettato i principi in essa dichiarati, e come la “Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali” del 1950, che ha visto impegnarsi nel loro rispetto i Paesi del Consiglio d’Europa. Ma, proprio come gli stessi documenti appena citati possono testimoniare, si tratta di dichiarazioni a cui hanno aderito alcune particolari Nazioni, mentre altre invece hanno adottato altri Trattati o nessuno. Da parte delle altre Nazioni, sono stati creati quindi altri documenti. Ad esempio, i Paesi musulmani (e perciò molti Paesi della regione Mediorientale), hanno proclamato presso l’UNESCO nel 1981 la “Dichiarazione Islamica dei Diritti dell'Uomo”.
Questo ci aiuta a comprendere come questioni di questo tipo vadano valutate tenendo conto del contesto dove sono inserite. Adottando questa logica si potrà meglio comprendere come, ai nostri occhi, determinate cose possano ritenersi violazione dei diritti umani, mentre per altri no.
Questo ragionamento non si vuole offrire come giustificazione a comportamenti a volte inaccettabili, ma si presenta come guida per una migliore comprensione delle culture altrui.
Le società di gran parte dei Paesi in questione, si basano su un sistema patriarcale, che nutre un timore verso le influenze esterne che possono in un certo senso contaminare gli equilibri tradizionali che si sentono propri. Talvolta, ci sono Paesi in cui le donne sono riuscite ad acquisire uno status migliore rispetto a quello degli anni precedenti, ma rimane radicata l’idea di fondo che vede riconoscimenti diversi all’uomo e alla donna.
Tuttavia, in un epoca come quella di oggi, dove i mezzi di comunicazione di massa come internet, la televisione e la radio, permettono di condividere dovunque ciò che accade nel resto del mondo, è difficile per i Paesi autoritari (non si parla solo di Medio Oriente) rimanere estranei ad un contagio di idee e comportamenti e quindi negare dei diritti che altri, in altre parti del mondo, possono vantare.
La donna musulmana deve ancora combattere a lungo per uscire dal ruolo che le viene imposto dai sistemi tradizionali in cui vive, ma il problema si pone sotto vari punti di vista. Oltre ad essere un riflesso della religione, anche le culture e le mentalità ne sono colpite. E questo spinge a fare altre considerazioni: se il ruolo della donna fosse rivalutato, probabilmente avrebbe ripercussioni sociali e politiche. E questa è una circostanza che molti regimi temono; motivo per cui il processo di emancipazione femminile subisce ulteriori rallentamenti.
L’esempio della legislazione saudita è lampante: si tratta di una società fondata su una particolare interpretazione della dottrina islamica che priva le donne dei diritti fondamentali, o ne subordina la vita sociale ed economica alla presenza condizionante di un tutore maschio.
Sotto la monarchia saudita, ogni donna deve avere un “Wali” – un tutore di sesso maschile – che può essere il padre, il fratello, il marito o uno zio. Senza questa persona al loro fianco, le donne saudite non possono fare niente. Si potrebbe affermare che come soggetto di diritto non esistono.
Tra le numerose limitazioni che vengono loro imposte vi sono divieti a viaggiare da sole, aprire conti in banca, donare o ereditare soldi, intraprendere attività economiche, e tanto altro ancora.
Una vittoria per le donne è quella che si è raggiunta nel giugno 2018, quando è decaduto finalmente il divieto imposto per le donne in Arabia Saudita di mettersi alla guida di un veicolo. Le donne saudite dovevano fare affidamento su fratelli, mariti o autisti per potersi muovere, ma ad oggi questo divieto è finalmente venuto meno. È stata una svolta storica per un Regno che si classifica tra i più rigidi e conservatori al mondo. Il provvedimento, che si inserisce in un quadro di riforme volte a modernizzare il Paese, sembra dare la speranza per altri passi in avanti in futuro.
In un’intervista con “The Atlantic”, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, colui che ha permesso la rimozione del divieto alla guida per le donne, ha riconosciuto che c’è bisogno di continuare a lavorare al miglioramento dei diritti femminili, ma al contempo ha spiegato che esistono aspetti più profondi e complessi, che trovano fondamento nelle differenze sociali e culturali: "Ad alcune famiglie piace mantenere l’autorità sui propri membri. […] Ci sono famiglie a cui il sistema va bene così com'è. Ci sono famiglie più aperte, che concedono alle donne e alle figlie ciò che desiderano. Quindi se acconsento a queste richieste, significa che sto creando problemi per le famiglie che non vogliono dare libertà alle proprie figlie.".
Il via libera alla guida è quindi un grande passo avanti per un Paese fortemente autoritario come l’Arabia Saudita, ma rimangono ancora numerose limitazioni alle libertà delle donne, tra cui il fatto che:
- Non hanno diritto ad un processo equo. In sede giudiziaria, la testimonianza offerta da una donna vale la metà di quella dell’uomo;
- Hanno diritto solo alla metà dell’eredità rispetto ai loro fratelli;
- Prima di sposarsi, devono ottenere il permesso del loro tutore, e se si tratta di un matrimonio con uno straniero, deve esserne richiesta l’approvazione del Ministro dell’Interno;
- Non hanno diritto ad aprire un conto in banca, in quanto non gli è riconosciuta la libertà di gestire le proprie finanze;
- La scelta del guardaroba è molto limitata*.
*Come spiegato in un nostro precedente articolo, alle donne saudite è richiesto di indossare un determinato tipo di abbigliamento che le vede coperte con il “Niqab” che lascia scoperti solo gli occhi. Negli anni, è stato concesso alle donne un margine di libertà sul modo in cui indossare il velo e sui colori da scegliere, ma restano forti limitazioni.
- Le occasioni che le donne hanno di passare del tempo con uomini diversi dai membri della loro famiglia sono molto poche. Difatti, è norma trovare spazi pubblici divisi in sezioni, alcune accessibili alle donne ed altre agli uomini.
Ma tutte queste non sono imposizioni dettate dalla religione. L’Islam non impone questi dettami, e a provarlo vi sono i testi sacri e i numerosi Paesi musulmani che di queste rigidità non ne applicano. La religione, difatti, non può e non deve essere usata come scusante per il ritardo del raggiungimento dell’indipendenza delle donne. Non è un caso che, a parità di religione, i Paesi del Golfo si differenziano molto nel trattamento riservato alle donne.
A confermarlo vi sono anche le parole e le azioni di numerose attiviste che ancora oggi lottano per la conquista dei diritti umani: "Le donne dovrebbero essere considerate cittadini a pari diritti", aveva dichiarato l’attivista saudita Aziza Al-Yousef al Guardian nel 2016. Era stata lei a guidare una campagna in cui a migliaia avevano firmato la petizione per sradicare il sistema dittatoriale di tutela maschile vigente nel suo Paese. "Tutti hanno affermato che non si tratta di religione, sono solo norme governative, e dovrebbero essere cambiate" aveva insistito durante una delle tante manifestazioni.
Nel 2018, Aziza Al Yousef è stata incarcerata, rinchiusa in una cella e sottoposta a trattamenti crudeli a causa del suo attivismo per i diritti umani. Pochi mesi fa, a metà maggio 2019, le è stata garantita la scarcerazione temporanea, dopo aver passato quasi un anno in prigione. Ma molte altre sono le donne che hanno storie simili alla sua. Sono storie di sfide, di lotte, e sacrifici, tutti volti a liberare le donne che ancora vivono oppresse.
Giustamente, riguardo a tutte queste violazioni, Amnesty International ci fa notare come i diritti delle donne non siano violati solo nei Paesi del Medio Oriente. In un documento dell’anno scorso, intitolato “RIGHTS TODAY” - “La situazione dei Diritti Umani nel mondo”, viene elencata tutta una serie di politiche e di leggi volte ad opprimere e controllare le donne nel mondo.
Il numero di questi provvedimenti sembra aumentare sempre più in tutto il mondo, mentre le attiviste rischiano la propria vita pur di portare alla luce le violazioni dei diritti umani: tra loro c'è Ahed Tamimi, la giovanissima attivista palestinese che è stata ingiustamente imprigionata per aver provato a difendere il suo popolo; ma anche Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef, tre attiviste detenute in Arabia Saudita per aver lottato per i diritti delle donne; e Marielle Franco, assassinata in Brasile per aver combattuto senza paura per il rispetto dei diritti umani.
Le donne sembrano dover lottare sempre con più veemenza per l’ottenimento e il rispetto dei loro diritti, e anche in Europa si assiste a un preoccupante aumento di odio e discriminazione verso i movimenti femminili e verso la società civile. Il tessuto sociale è sempre più incrinato, e ad alimentare questi problemi sono i leader politici che incolpano determinati gruppi per la nascita di problemi sociali ed economici.
Alcuni movimenti diffondono odio e discriminazione e riescono ad avere una certa influenza a livello politico; in contemporanea, i partiti politici importanti riprendono queste idee sfruttando la stessa retorica usata dai movimenti. Con il sostegno di alcuni politici, e di parte dei media, diventa quasi inevitabile la diffusione di questi sentimenti di odio e intolleranza.
È bene rendersi conto del fatto che anche gli Stati membri dell'Unione Europea, assieme a tutti gli altri Stati che oggi violano i diritti umani, debbono impegnarsi maggiormente affinché vi sia il rispetto degli accordi in materia.
I passi indietro in merito alla protezione internazionale dei diritti umani vi sono eccome, e non ne mancano nemmeno in Paesi come la Svizzera, che sostiene interessi economici, e di altro tipo, in evidente contrasto con i principi umanitari essenziali. Designare Ginevra come "capitale mondiale dei diritti umani" richiede che lo Stato si dimostri forte sostenitore dei diritti umani, ma spesso ciò non accade.
Bisogna lottare, per le donne, con le donne, e in quanto donne.
Sofia Abourachid
Dottoressa in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani con Laurea acquisita presso l’Università degli Studi di Padova.
Dottoressa Magistrale in Relazioni Internazionali curriculum di Diplomazia e Organizzazioni Internazionali con Laurea acquisita presso l’Università degli Studi di Milano.
Appassionata di diritti umani e di tutto ciò che concerne il sociale, tra cui tematiche di uguaglianze di genere, minori, donne, immigrati e terzo settore. Altrettanto appassionata di storia e di politica internazionale, così come di formazione, comunicazione, e percorsi di motivazione.
Con la sua storia, le origini arabe, e skills personali, in Mondo Internazionale ha ricoperto la carica di Project Manager per il progetto TrattaMI Bene; oggi, oltre ad essere Editor, ricopre il ruolo di Chief Editor dell'area Diritti Umani.
-
Graduated in Political Science, International Relations and Human Rights with a Degree from the University of Padua.
Master's Degree in International Relations, Diplomacy and International Organizations curriculum with a Degree from the University of Milan.
She is interested in human rights and everything related to social issues, including gender equality, minors, women, immigrants and the third sector. She is equally passionate about history and international politics, as well as training, communication, motivation and personal growth.
With her personal history, her arab origins, and personal skills, in Mondo Internazionale she held the role of Project Manager for the TrattaMI Bene project; today, in addition to being Editor, she also holds the role of Chief Editor of the Human Rights area.