Guerra del Donbass

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  Redazione
  29 giugno 2021
  6 minuti, 39 secondi

La Russia ha sempre avuto mire geopolitiche sulla Crimea dovute anche ad un articolo presente nella Costituzione della Federazione che le assegnerebbe il ruolo di protettrice di tutti i russi. Ciò cosa vorrebbe dire? Il Governo è nel pieno esercizio delle sue funzioni e cioè è obbligato ad intervenire qualora i suoi concittadini siano soggetti ad una qualsiasi situazione di potenziale rischio, sia che i russi verso cui agisce risiedano in territorio federale, sia se costoro vivano al di fuori dei confini.

In virtù di questo articolo le azioni (militari) russe sarebbe dunque legittime. Ed è ciò che ci riporta in Crimea e al 2014.

Nel 2013 Kiev era stata data alle fiamme per colpa delle proteste e le manifestazioni di Piazza Maidan che portarono alla destituzione e poi fuga dell’allora Presidente filorusso Viktor Yanukovich. Nel 2014, il 6 aprile la Russia con un referendum unilaterale non riconosciuto dalla comunità internazionale, annette la Crimea facendola diventare un nuovo oblast’ federale. Per rimarcare la sua decisione, successivamente e rapidamente, costruì un ponte per connettere fisicamente il nuovo territorio a Mosca. Nel 2015 viene dichiarato il cessate il fuoco ma la guerra in Donbass nell’est dell’Ucraina continua, tra esercito governativo e separatisti filorussi, sostenuti da Putin sia economicamente che con l’invio di armi.

Dal 2015, grazie agli Accordi di Minsk, i combattimenti si sono ridotti. Kiev accusa la Russia di bloccare le imbarcazioni che navigano nel Mare d’Azov, per ostacolare i traffici commerciali. Nello specifico il porto di Mariupol prima conquistato dai separatisti e ora di nuovo sotto il governo centrale.

Nel 2016 i capi di Stato di Francia, Germania, Russia e Ucraina, si sono incontrati per un summit basato sugli Accordi di Minsk, dal nome Formato Normandia, luogo in cui si tenne il primo nel 2014.

Si stima che le morti abbiano superato le 14mila unità. Tra queste, la maggior parte sono civili che vivono in quelle zone e moltissimi avrebbero più di 60 anni.

Un aspetto a cui non si dà la giusta importanza è quello psicologico. La popolazione di quelle aree è soggetta ad un forte senso di stress, precarietà, incertezza, paura, perdita dei beni di prima necessità e spesso dei propri affetti (sia perché il tasso di morti è altissimo sia per i trasferimenti da parte della giovane popolazione in aree del paese meno instabili e con maggiori opportunità lavorative) iterati in arco temporale lungo. Chi resta solo? Gli anziani. La Caritas svolge un supporto fondamentale. Ha 250 operatori sul campo che provvedono alle necessità e ai bisogni degli abitanti. Il personale messo a disposizione è composto da assistenti sociali, psicologi e personale umanitario. Ogni giorno distribuiscono acqua potabile, pacchi alimentari e forniture di carbone, tutte cose che noi diamo per scontato ma lì fanno la differenza tra la vita e la morte. Inoltre, gli stipendi sono estremamente bassi (circa 70 euro) rispetto alla media europea e vengono interamente impiegati per il riscaldamento delle case.

Dal 2014 ad oggi gli sfollati sono più di 1,8 milioni interni e aumenterebbero ancora se la loro vita fosse di nuovo a rischio. Queste persone da sette anni non posseggono nulla. Non vedono neanche più un futuro davanti a loro. La vita è l’unica cosa che ancora possiedono e la tengono stretta tra le mani. Se un domani anch’essa fosse a rischio, non avendo altro da perdere, lascerebbero immediatamente quei territori e si riverserebbero in Ucraina, negli altri paesi UE e non solo andando a creare un nuovo flusso migratorio che porterebbe nuovi dissapori e instabilità tra gli stati membri.

Il supporto psicologico nelle zone di guerra è fondamentale. La Croce Rossa o la Caritas sono attenti nel fornire alle persone ciò di cui necessitano, che siano cose tangibili o, come in questo caso, cure dell’anima non solo in Ucraina. Anche sulla striscia di Gaza o in Sud Sudan o in America latina, tanto per portare tangibili esempi. Gli abitanti di queste zone che si sono proclamate unilateralmente indipendenti dall’Ucraina hanno perso tutto. Lavoro. Case. Affetti. Non guardano più al futuro ma da sette anni vivono in uno stato di ansia e precarietà che è cresciuto costantemente. Il lavoro degli psicologi qui è prezioso. Le persone sono in lutto, sono sfollate, si sono ammalate anche a causa della pandemia e c’è ben poco spazio per immaginare una vita differente. Waskowycz ha dichiarato: «In molti villaggi non c’è più una filiera di approvvigionamento e le risorse sono così scarse da spingere a decisioni impossibili: spendere per il cibo o per i medicinali?». I bisognosi sono 3,4 milioni. Il piano Onu attualmente in vigore prevede di assisterne 1.9 milioni. A complicare l’intervento è anche è la situazione demografica dei villaggi: un terzo dei residenti è composto da anziani.

Il presidente della Caritas ucraina, Andrij Waskowycz, riferendosi alla popolazione dichiara: «Non hanno mai smesso di temere per la loro vita perché hanno assistito quasi quotidianamente a spari, lanci di granate, mine che esplodono. Con la tregua di luglio si era registrato un calo, ma le violenze sono tornate. Eppure, a lungo il mondo ha guardato altrove, convinto che qui tutto fosse tranquillo».

L’8 aprile 2021 Zelensky si è recato nell’Est del paese. “La visita ha luogo in zone dove l’armistizio è stato infranto svariate volte negli ultimi giorni e ha come obiettivo rinvigorire lo spirito di lotta”, recita il comunicato della presidenza. Da gennaio si sono registrati 25 morti, tutti militari ucraini. Il 22 aprile 2021, in una nota, Putin ha dichiarato che «manovre finiranno». Mentre il giorno successivo, Putin ha detto di essere pronto a ricevere a Mosca il suo omologo ucraino Zelensky.

Le auto-proclamate Repubbliche di Doneck e Luhans’k sono stati teatro di violenza a diversi livelli. La tensione è aumentata in modo preoccupante per lunghe settimane, per poi arrestarsi in modo inaspettato. Molti temono che questo clima così discontinuo possa aggiungere pressioni all’Ucraina che, sperando in una pace che tarda ad arrivare e subendo in aggiunta al conflitto anche pressioni e manipolazioni psicologiche che andrebbero ad incidere negativamente sul morale delle truppe, potrebbe arrendersi e concedere alla Russia enormi privilegi che preoccupano l’Unione Europea, gli Stati Uniti e ovviamente l’Ucraina.

I territori risultano essere devastati. Sette anni di guerra sono lunghi. Gli Stati Uniti, nella figura del Presidente Biden, hanno attuato una serie di sanzioni ai danni della Russia. Basti pensare che la Federazione spende tra il 3% e il 4% del suo PIL per pagare le sanzioni a cui è sottoposta dall’UE e contemporaneamente per finanziare i separatisti filorussi nel Donec. Intanto l’UE continua a rimanere silenziosamente preoccupata non varando nuovi e più aspri provvedimenti economici contro la Russia.

I motivi sono molteplici. Uno di quelli chiave è il gas. Bisogna considerare che la Russia dispone ed esporta massicciamente gas ai paesi europei, che viaggia attraverso l’Ucraina, la quale, per questo servizio, incassa tre miliardi di dollari l’anno. I primi beneficiari del gas russo sono la Germania e la Francia e non bisogna trascurare il fatto che la Russia è un membro della Nato mentre l’Ucraina no. Tuttavia, l’Ucraina ha richiesto una procedura d’urgenza per diventare Stato membro. Questo processo, com’è facilmente immaginabile, alla Russia non piace. Il vicepremier russo Dmitrij Kozak per “evitare una seconda Srebrenica” avrebbe manifestato il desiderio di inviare un nuovo contingente russo sulla linea di confine. La Sbu (intelligence ucraina) attende ormai con rassegnazione un intervento militare nemico e, per tutelarsi, avrebbe intenzione di servirsi di droni turchi Bayraktar Tb2 da destinare alle due repubbliche separatiste. Biden non vedrebbe in modo negativo questo avvenimento perché, in un colpo solo, potrebbe seguire una crisi tra la Russia e la Turchia e impedirebbe una normalizzazione nei rapporti diplomatici tra i due paesi slavi e l’impossibilità di riprendere le trattative di pace.

a cura di Giulia Patrizi 

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