Facebook sotto accusa, ancora una volta

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  Irene Boggio
  31 ottobre 2021
  5 minuti, 52 secondi

“Facebook e Big Tech stanno affrontando un momento “Big Tobacco”. Una resa dei conti. La somiglianza è impressionante. Ho fatto causa a “Big Tobacco” e contribuito a guidare gli Stati in quell'azione legale in qualità di procuratore generale del Connecticut e ricordo molto bene il momento in cui, nel corso del processo, si scoprì non solo che “Big Tobacco” sapeva che i suoi prodotti causavano il cancro, ma che aveva fatto le proprie ricerche e nascosto i documenti. Uno stesso, sbalorditivo, momento della verità è oggi arrivato per Big Tech”.

Il Senatore americano Richard Blumenthal ha aperto così, il 5 ottobre scorso, l'audizione di Frances Haugen presso la sottocommissione del Senato “Protezione dei Consumatori, Sicurezza dei Prodotti e Data Security”. Dipendente di Facebook dal 2019 al 2021, impiegata come product manager prima all'interno del dipartimento Civic Integrity (incaricato di monitorare i rischi che i contenuti disinformativi circolanti sulla piattaforma possono rappresentare per un corretto svolgimento delle elezioni) e poi nel team impegnato in attività di contro-spionaggio, Frances Haugen è la whistleblower che ha consegnato alla stampa un'enorme quantità di documenti interni che dimostrano come la società, pur conoscendo da tempo i terribili effetti collaterali derivanti dall'utilizzo dei propri prodotti (Facebook e Instagram in particolare), non si sia curata di implementare le misure necessarie a prevenirli o mitigarli, in nome del profitto. Ma c'è di più. Non solo Facebook (oggi dovremmo dire Meta) sapeva e non si è adoperata a sufficienza per ridurre i danni causati dai propri prodotti: Facebook sapeva e ha nascosto le evidenze risultanti dalle proprie ricerche interne ai propri investitori, oltre che ai propri utenti e al legislatore.

Proprio su questa base – l'incongruenza tra le informazioni ricavabili dalle ricerche interne divulgate da Frances Haugen e l'immagine della società proiettata dai suoi portavoce, a cominciare dal CEO Mark Zuckerberg – la whistleblower Haugen ha denunciato Facebook alla Securities and Exchange Commission (SEC), l'ente federale preposto alla vigilanza dei mercati finanziari. Come da lei stessa spiegato in occasione dell'intervista televisiva rilasciata il 4 ottobre al programma “60 Minutes” – attraverso la quale ha rivelato la propria identità al grande pubblico1 – in quanto società per azioni quotata in borsa Facebook non può mentire ai propri investitori, né nascondere loro informazioni cruciali di cui sia in possesso. Il Dodd-Frank Act, inoltre, stabilisce che nessuna società per azioni quotata in borsa possa proibire ai propri dipendenti di comunicare con la Securities and Exchange Commission (all'interno della quale istituisce, proprio a questo scopo, un Office of the Whistleblower), né di condividere con la stessa documenti interni. Per questo Haugen non sarà perseguibile per aver diffuso documenti riservati.

Se le conseguenze dello scandalo Cambridge Analytica sono state tutt'altro che cataclismiche per la società – rileva Carole Cadwalladr, che quello scandalo scatenò, nel lontano marzo 2018, con le inchieste pubblicate sul Guardian e rese possibili dalle rivelazioni del whistleblower Christopher Wyliequesta volta potrebbe andare diversamente. Non soltanto perché il contesto è molto cambiato negli ultimi tre anni e Facebook non gode della medesima salute (e reputazione) di allora. E non tanto perché i documenti interni rilasciati da Haugen attestano il ruolo di amplificatore dei discorsi d'odio e della disinformazione ricoperto da Facebook, il fatto che abbia agevolato il genocidio dei Rohingya in Myanmar o l'assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, o ancora che Instagram peggiori significativamente il rapporto con il proprio corpo e la salute mentale degli adolescenti (ben più che altri social media, ha più volte sottolineato Haugen). Le rivelazioni dei Facebook Papers non sono sufficienti, infatti, a garantire che Facebook si assuma le proprie responsabilità e intervenga realmente a modificare i propri prodotti, così da dare soluzione alle falle che questi hanno sin qui manifestato. Al contrario, scrive Cadwalladr, “se queste denunce (al SEC – ndr) riescono a provare che Facebook ha mentito ai propri investitori, qualcuno finirà in carcere”.

Che le inchieste nate a partire dai documenti divulgati da Frances Haugen riescano a produrre un effettivo cambio di passo da parte di Facebook o a fornire ai governi la spinta necessaria a regolare finalmente Big Tech in maniera seria e stringente è comunque auspicabile, anche se non molto probabile secondo i più pessimisti. Proprio un intervento normativo determinato è quanto Haugen ha chiesto al Congresso statunitense e al Parlamento inglese, da cui è stata consultata. Intervento che si rende necessario, secondo l'ex dipendente di Facebook, proprio in considerazione dell'incapacità della società di agire, autonomamente, a difesa della sicurezza e dell'interesse comune, invece che del proprio profitto.

“Sono qui oggi – ha scritto Haugen nella testimonianza consegnata al Senato americano – perché credo che i prodotti di Facebook danneggino i bambini, alimentino le divisioni, indeboliscano la nostra democrazia e molto altro. I vertici della società conoscono modi per rendere Facebook e Instagram più sicuri, ma non apportano le necessarie modifiche perché mettono i propri enormi profitti davanti alle persone. Un intervento del Congresso è necessario”. E ancora: “quando scoprimmo che l'industria del tabacco nascondeva i suoi danni, il governo intervenne. Quando realizzammo che le auto sarebbero state più sicure con le cinture di sicurezza, il governo intervenne. Oggi il governo sta intervenendo contro le società che nascondono le evidenze di cui sono in possesso sugli oppioidi. Vi imploro di fare lo stesso anche in questo caso”. Che sia la volta buona?

1 Qualche indicazione di natura cronologica. Haugen ha inizialmente condiviso i documenti trafugati unicamente con il Wall Street Journal, che ha iniziato a pubblicare i propri articoli sui “Facebook Files” (così erano stati denominati, inizialmente, dal WSJ) il 13 settembre. Fino all'intervista rilasciata il 4 ottobre, l'identità del whistleblower responsabile del leak è rimasta ignota. Il giorno successivo all'intervista, il 5 ottobre, Frances Haugen è stata chiamata a testimoniare al Senato americano, presso la sottocommissione “Protezione dei Consumatori, Sicurezza dei Prodotti e Data Security”. Solo intorno al 10 ottobre i documenti sono stati condivisi con altre testate, riunite in un consorzio, e si è preso a farvi riferimento con il nome di “Facebook Papers”. I giornali facenti parte del consorzio summenzionato hanno avviato le proprie pubblicazioni sui “Facebook Papers” il 25 ottobre (anche se, a dire il vero, alcuni hanno violato l'accordo concluso con gli altri partners e hanno pubblicato i primi articoli già il 22). Lo stesso 25 ottobre Haugen ha fornito la propria testimonianza al Parlamento inglese, dove è stata accolta dalla Commissione impegnata nell'esame della bozza dell'Online Safety Bill, un progetto di legge che stabilirà un nuovo framework regolatorio per i social media e che dovrebbe entrare in vigore nel 2022.

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Irene Boggio

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