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Le schiavitù del XXI secolo

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  Redazione
  01 dicembre 2020
  5 minuti, 52 secondi

Viviamo in un periodo storico in cui la velocità tecnologica e l’interazione sociale sono il motore della hubris, un concetto caro al famoso autore e criminologo Soltes, un binomio tra infinita possibilità e tracotanza che spinge i giovani alla ricerca di una sempre crescente conformità e appartenenza ad un gruppo che, nella maggior parte dei casi, non appartiene loro.

Il termine appena utilizzato non intende essere un superfluo latinorum, bensì vuole indurre il lettore alla riflessione riguardo la vastità di informazioni che può ottenere e trasmettere senza averne una padronanza specifica. Fatti ed informazioni che possono spingere i suoi interlocutori all’emulazione, in caso di posizione di supremazia, o di discriminazione in caso di subordinazione. Il miraggio della cosiddetta “Instagram life”, una vita fatta di hotel di lusso vestiti alla moda e auto sportive, nel caso di una posizione di supremazia (intesa in senso sociale mediatico ed economico), porterà i fruitori dei contenuti, subordinati rispetto ai creatori, a tentare il raggiungimento di queste nuove mete socialmente promosse ed accettate.

Andando ora a dipanare e dar ragione a quando appena scritto e darne una spiegazione che sia logica, ma mai assoluta, sarà utile ricordare le illuminanti parole di R.K. Merton nell’elucubrazione della Strain Theory o, in termini più comprensibili, la teoria della tensione sociale. Viene qui enunciato che nel momento in cui gli adolescenti si pongono come obiettivo l'accettazione sociale si trovano davanti un enorme scoglio, cioè la difficoltà di raggiungerla con mezzi legittimi.

Vediamo che queste mete da raggiungere per essere accettati siano tra le più svariate: il lavoro, l’università, l’auto sportiva fino al capo di alta moda; tutti elementi che se ottenuti renderanno l’individuo più accettato dalla società di massa, fino a renderlo un esempio da emulare.

Nel concatenarsi dei fattori emulatori si fonderà sempre più la volontà di emulazione di altri individui e, riprendendo la teoria sopracitata, nel caso in cui mancassero i mezzi per poter accedere alla meta si ricorrerà a mezzi alternativi satisfattivi del bisogno, che potranno essere leciti o illeciti.

A proposito dei primi, l’individuo in questione impegnerà le sue risorse (tempo, denaro, impegno…) per il raggiungimento dell’obiettivo oppure “abbandonerà la lotta” per concentrarsi su altre mete.

Per quanto riguarda i secondi mezzi citati, il fenomeno dell’emulazione è senza dubbio un forte fattore psico-sociale, radicato soprattutto negli individui con un'identità in corso di formazione e nei giovani adulti che cercano di ritagliarsi un posto all’interno della società. Molto spesso, però, questo passaggio è vissuto con timori per la paura del giudizio altrui. Dalla nascita della società di consumo si sono creati degli status symbol, oggetti, lavori, hobby che identificano una persona all’interno di una determinata classe sociale; l’impossibilità di accesso a questi beni specifici ha portato ad un fenomeno altresì interessante, la contraffazione.

La contraffazione ha origini antichissime: si pensi che i primi “falsi” risalgano ai tempi dell’Impero Romano, dove dei proto-falsari affinavano le loro tecniche per il conio di sesterzi falsi da immettere nel mercato. Dai romani fino ai giorni nostri l'arricchimento e conformità con la “popolazione abbiente” con mezzi illeciti è sempre stato un modo per soddisfare i bisogni da una parte economici, dall’altra sociali.

Per contrastare questo fenomeno il legislatore italiano ha introdotto nella rubrica al titolo VII libro II, l’art. 473 c.p. che disciplina il reato di contraffazione come reato contro la fede pubblica con pene edittali che prevedono da multe fino alla reclusione.

L’interesse in questa disciplina lo si può trovare in duplice species: da una parte la violazione del diritto del consumatore ignaro di acquisto di merce contraffatta, dall’altra la violazione di un marchio registrato e quindi della proprietà intellettuale del marchio stesso. Questa divisione, molto discussa dalla dottrina e dalla giurisprudenza ha portato alla sent. (Corte Cass., Sez. V, 27/01/2016 n. 18289), nella quale è stata affermata l’assoluta pluri-soggettività dell’offesa, dando così una lettura operativa dell’art. 473 c.p.

Se da una parte troviamo i soggetti che pongono in essere comportamenti illeciti producendo merce contraffatta e che quindi soggiaciono alle pene suddette, non c’è offerta senza domanda, quindi anche per il “consumatore” di prodotti contraffatti troviamo dei limiti imposti dal legislatore. Dalla più recente giurisprudenza si è evinto infatti che l’acquisto di merce contraffatta non è reato se essa è utilizzata per scopi personali, ma è punito con una sanzione amministrativa fino a 7.000 euro. La differenza del carattere probatorio dall’acquisto per uso personale, all’acquisto per rivendita determina la configurazione del reato di ricettazione ex art 648 c.p. con pene edittali fissate a multe fino a 10.329 euro e alla reclusione fino a 8 anni.

Il dispositivo per questi tipi di reati e illeciti configura in ogni caso un forte rischio sia per il produttore che per il consumatore, e a questo punto è quindi interessante chiedersi la motivazione per la quale le persone sono spinte ad acquistare merce falsa.

Ritornando al discorso dell’introduzione, i modelli che nella semiotica e nel linguaggio iconico vengono proposti portano le persone ad un progressivo svilimento delle proprie possibilità economiche introducendo standard sempre più alti, capi di moda sempre più costosi, permettendo così ad una nicchia di persone l’imitazione con prodotti “legit”, mentre il resto della popolazione è costretta o all’abbandono della tendenza, rischiando l’allontanamento da certi ambienti o gruppi, o il ricorso a mezzi illeciti per seguire la moda, spesso senza conoscere i reali rischi che si potrebbero correre.

All’inizio del secolo scorso gli studiosi della teoria dell’interazionismo simbolico si sono occupati del labelling approach o teoria dell’etichettamento, definendola come una scorciatoia cognitiva che permette di conoscere a pieno una persona senza conoscerla affatto basandosi solo su una sommaria visione di essa; ecco ad oggi, seppur si sia passati da un’“etichetta” fisica o etnica ad un’etichetta di un brand famoso il discorso è ben poco variato nell’accezione assoluta, ma totalmente ribaltato nel suo significato. In certi ambienti infatti se prima era considerato un disvalore il fatto di essere schiavi di un’etichetta, ora costituisce un valore aggiunto e un momento di conformità sociale che permette all’ individuo di nascondersi dietro e dentro ad essa nella moltitudine per rispondere meglio alle aspettative sociali.

In conclusione, questa necessità di essere etichettati, come ampiamente sopra citato, induce molti consumatori all’acquisto di merce contraffatta. Si pensi che attualmente il mercato fake costituisce tra il 5/8% del commercio globale con un giro d’affari di 250 miliardi di dollari. Basti pensare ai grandi produttori come Cina e Turchia, dove questo mercato segna quasi il 10% del PIL nazionale; tutto ciò a discapito da una parte dei detentori dei brand, dall’altra del consumatore finale che seppur a costi irrisori si trova ad acquistare merce di qualità infima con materiali spesso non conformi agli standard di sicurezza per tossicità, senza considerare il grave danno erariale interno oltre l’enorme giro d’affari per la criminalità organizzata nazionale ed internazionale.

Fonti consultate per il presente articolo:

Gabrio, L'immane concretezza, Cortina Editore, 2000, Milano

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