L’accordo G7 sulla global corporate tax trova il sostegno di 132 Paesi

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  Irene Boggio
  15 July 2021
  7 minutes, 23 seconds

L’accordo sulla riforma del regime internazionale di tassazione delle multinazionali concluso dai Ministri delle Finanze dei paesi del G7 i primi di giugno ha recentemente trovato il sostegno di 132[1] dei 139 paesi aderenti all’OECD/G20 Inclusive Framework on Base Erosion and Profit Shifting (BEPS), progetto di cooperazione multilaterale ai fini del contrasto all’elusione fiscale sviluppato e diretto dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, in collaborazione con il G20. Il 1 luglio, infatti, 130 paesi (successivamente raggiunti da altre 2 giurisdizioni) hanno sottoscritto la “Dichiarazione su una soluzione a due pilastri per fronteggiare le sfide fiscali scaturenti dalla digitalizzazione dell’economia", che raccoglie e precisa le misure di riforma discusse e approvate in giugno dai Ministri delle Finanze del G7.

Barbados, Estonia, Irlanda, Kenya, Nigeria, Sri Lanka e Ungheria sono i 7 Paesi che ancora mancano all’appello. Tra di essi, come il lettore avrà notato, si scorgono anche tre Stati Membri dell’Unione EuropeaEstonia, Irlanda e Ungheria – noti per l’imposizione di una tassazione piuttosto ridotta sulle imprese (l’aliquota è del 12,5% in Irlanda e del 9% in Ungheria). La loro contrarietà al compromesso raggiunto grazie al lavoro di coordinamento e negoziazione svolto fin dal 2016 dall’OCSE - in seno all’Inclusive Framework on BEPS - non ha stupito: si consideri, a titolo d’esempio, che l’Irlanda è andata ribadendo la propria insoddisfazione - in particolare rispetto all’aliquota minima globale del 15% sui profitti delle multinazionali - sin dalla riunione dei primi di giugno dei Ministri delle Finanze del G7.

La medesima “Dichiarazione su una soluzione a due pilastri” ha poi raccolto l’avallo dei Ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche Centrali dei Paesi facenti parte del G20. Riunitisi a Venezia il 9 e 10 luglio scorsi, infatti, questi ultimi hanno espresso la propria soddisfazione per l’accordostorico, su un’architettura fiscale internazionale più stabile ed equa” raggiunto mediante la cooperazione multilaterale. Essi hanno quindi sollecitato l’OECD/G20 Inclusive Framework a definire gli ultimi dettagli tecnici e il piano d’implementazione delle nuove norme entro il mese di ottobre e invitato i Paesi ancora scettici (o decisamente contrari) ad aderire all’accordo al più presto.

Il Commissario Europeo all’Economia Gentiloni, che ha partecipato al vertice di Venezia, ha dichiarato, in proposito: “è una vittoria per l'equità fiscale, per la giustizia sociale e per il sistema multilaterale. Ma il nostro lavoro non è finito. Abbiamo tempo fino a ottobre per finalizzare questo accordo. Sono ottimista: in questo lasso di tempo riusciremo anche a raggiungere un consenso fra tutti gli Stati membri dell'Unione europea su questa questione cruciale." Alla stampa, in effetti, un portavoce della Commissione ha dichiarato che la Commissione stessa continuerà a interagire con Estonia, Irlanda e Ungheria e a lavorare per garantire il raggiungimento di un consenso interno all’Unione intorno ai contenuti dell’accordo internazionale entro ottobre. La speranza è che, una volta definiti i dettagli tecnici, anche i tre Stati contrari si convincano a sottoscriverlo.

Ma qual è l’oggetto del contendere? La Dichiarazione sottoscritta il 1 luglio predispone una soluzione a due pilastri alle sfide di natura fiscale poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione dell’economia, che da anni rendono del tutto inadeguate le norme internazionali sulla tassazione sancite dal network di trattati internazionali bilaterali attualmente vigenti in materia fiscale. Tali norme presentano due fondamentali criticità. In primo luogo, esse stabiliscono che i profitti di una società possano essere tassati in un Paese diverso da quello in cui essa ha la propria sede soltanto se in quel Paese la società è in qualche misura stabilita (cioè fisicamente presente sul territorio nazionale). Questo poteva risultare sensato un centinaio di anni fa, quando fare affari presupponeva necessariamente la predisposizione di fabbriche e magazzini; oggi, invece, nel nostro mondo digitalizzato, le grandi imprese multinazionali possono gestire enormi giri d’affari in Paesi in cui non manifestano alcuna presenza fisica. In secondo luogo ed in abbinamento al primo problema, la maggior parte dei Paesi tassa solamente il ricavo e il profitto “domestici”, e non quelli ottenuti all’estero, delle imprese multinazionali ivi stabilite. Questo fa sì che buona parte dei profitti delle multinazionali – specialmente di quelle che scelgono di stabilirsi in Paesi che offrono una tassazione molto ridotta sulle imprese – finisce per non essere tassato, con perdite che l’OECD stima ammontare a 100-240 miliardi di dollari ogni anno per le casse degli Stati.

La soluzione cui 132 Paesi hanno dato il proprio beneplacito si fonda, come già evidenziato, su due pilastri. Il primo riguarda l’attribuzione di nuovi diritti di tassazione sulle multinazionali ai Paesi in cui queste operano e vendono i propri beni e servizi, indipendentemente dalla loro presenza fisica sul territorio nazionale. In base alle nuove norme raccolte sotto il cosiddetto “Primo Pilastro”, le imprese multinazionali con un ricavo globale superiore a 20 miliardi di euro e un tasso di profitto superiore al 10% vedranno tra il 20 e il 30% dei propri “residual profits” (i profitti che eccedono il 10%) tassati nei Paesi in cui si trovano i loro utenti e clienti – cioè dove vendono i propri beni e/o servizi, indipendentemente dal fatto che in quei Paesi siano fisicamente stabilite[2]. In considerazione di ciò, i Paesi sottoscrittori dell’accordo saranno tenuti a eliminare dal proprio ordinamento eventuali “Digital Services Taxes” introdotte negli ultimi anni (ormai più della metà dei Paesi europei ha implementato o annunciato questo genere di tassa, Italia inclusa).

Il Secondo Pilastro, invece, riguarda l’istituzione di un’aliquota minima globale da applicarsi ai profitti delle imprese multinazionali. Quando l’accordo individuato in seno all’OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS sarà implementato – si prevede nel 2023 – le multinazionali con ricavo annuale superiore a 750 milioni di euro[3] vedranno i propri profitti tassati almeno al 15% (la quota concordata anche dai Ministri delle Finanze del G7), ovunque esse operino o abbiano sede.

Quanto all’impatto di queste misure, l’OECD stima che le norme contenute nel Primo Pilastro possano garantire agli Stati, ogni anno, diritti di tassazione su 100 miliardi di dollari di profitto sinora sfuggito all’imposizione fiscale. L’aliquota minima globale del 15%, invece, dovrebbe generare ogni anno 150 miliardi di dollari di gettito fiscale aggiuntivo. Entrate più che preziose, specialmente alla luce degli effetti economici dell’attuale pandemia di COVID-19.

Ma il compromesso raggiunto, qui presentato, non ha soddisfatto tutti (e non si tratta soltanto dei 7 paesi che ancora non vi hanno aderito). Una delle voci più critiche è stata forse quella di Alex Cobham, Presidente di Tax Justice Network, advocacy group attivo proprio sul tema dell’elusione fiscale e della “concorrenza al ribasso” tra ordinamenti fiscali in materia di tassazione sulle imprese, che ha dichiarato: “accontentandosi di un’aliquota inferiore al 25%, i paesi del G7 stanno dicendo ai loro cittadini e al mondo che sono disposti a far sì che la concorrenza al ribasso continui indisturbata. L’opportunità di migliorare la vita di miliardi di persone in un solo colpo capita raramente, ma quando oggi la storia ha bussato alla porta i leader dei Paesi più ricchi al mondo le hanno voltato le spalle”. Motivo di una tale insoddisfazione sarebbe che un’aliquota del 25% non soltanto genererebbe un maggiore gettito fiscale per le casse degli Stati - precisamente, 780 miliardi di dollari di gettito fiscale aggiuntivo- ma soprattutto beneficerebbe i Paesi esclusi dal G7 più di quanto non sia in grado di garantire l’accordo mediato dall’OCSE. “I Paesi non inclusi nel G7 riceverebbero 355 miliardi di dollari con l’approccio più equo da noi proposto” – ha continuato Cobham – mentre, “se il G7 premesse per un’aliquota del 15%, come previsto dall’approccio profondamente iniquo scelto dall’OCSE, esso lascerebbe agli altri Paesi appena 100 miliardi di dollari, garantendosene 170”. Insomma: il compromesso raggiunto in seno all’OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS, sotto la spinta del G7 che per primo ha dichiarato il proprio favore nei confronti della soluzione poi scelta, beneficerebbe i Paesi più ricchi ben più di tutti gli altri, rivelandosi così ben poco “inclusivo.

[1] Al 9 di luglio, 132 paesi hanno manifestato il proprio sostegno.

[2] Va precisato che a vedersi riconosciuto un diritto di tassazione sulle tali multinazionali, in conformità al Primo Pilastro, sarebbero unicamente i Paesi in cui esse ottengono ricavi pari o superiori a 1 milione di euro – ammontare che è ridotto a 250 000 euro per i Paesi con PIL inferiore 40 miliardi di euro. Tocca precisare altresì che le imprese operanti nel settore estrattivo e dei servizi finanziari regolati non rientrano nell’ambito di applicazione delle norme afferenti al Primo Pilastro.

[3] La platea di imprese cui l’aliquota del 15% verrà applicata, dunque, sarà ben più ampia di quella che verrà interessata dalle misure relative al Primo Pilastro.

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Irene Boggio

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