La politica estera turca: tra revisionismo ed espansionismo

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  Michele Magistretti
  14 April 2021
  5 minutes, 27 seconds

Nell’ultima decade la Turchia ha deciso di dare una convinta svolta alla propria politica estera. Dallo scoppio delle Primavere Arabe, l’attuale presidente turco ha coinvolto il Paese in praticamente ognuno dei dossier della politica regionale con l’obiettivo di aumentare la proiezione e l’influenza regionale del proprio Paese.

Vediamo dunque quali sono state le direttrici e l’azione di politica estera del Paese anatolico nel corso degli ultimi dieci anni.

Le radici ideologiche e gli obbiettivi della politica estera turca

Partendo dal concetto di Profondità Strategica e successivamente da quello di Patria Blu, la Turchia ha iniziato a sviluppare una politica estera che l'ha portata ad assumere posizioni revisioniste riguardo lo status quo regionale, rispolverando intenti espansionisti ed imperialisti di stampo neo-ottomano.

Una delle prime direttrici ideologiche lungo le quali la potenza anatolica ha impostato la propria politica estera è sicuramente la promozione di un repubblicanesimo pan-islamista. Questo posizionamento ha avuto come intento quello di rivendicare la leadership del mondo sunnita e contestare quella delle potenze monarchiche del Golfo, in primis dell’Arabia Saudita e successivamente quella degli Emirati. Al fine di raggiungere questo intento, ha stretto solidi legami con Qatar, Pakistan e Malesia con l’obiettivo di creare "un’internazionale" dell’Islamismo Politico che facesse da contraltare alle potenze conservatrici del Golfo. Sempre seguendo lo stesso filo rosso, la Turchia ha anche esercitato con decisione una campagna di soft power nel continente europeo a difesa delle popolazioni musulmane, nei Balcani in particolare. Infatti, Ankara è riuscita ad approfondire la propria penetrazione in Paesi come Albania e Bosnia Erzegovina tramite l’utilizzo di fondazioni culturali, centri studi ma anche con investimenti diretti.

La seconda, ma non meno importante, direttrice ideologica tramite la quale Ankara ha tentato di ampliare la propria influenza nella politica internazionale è quella del panturchismo. Così Erdogan ha catapultato la proiezione politica del Paese verso le steppe centro-asiatiche nel quadro della cooperazione promossa dal Consiglio Turco. Oltre alla Turchia stessa, sono membri di questa organizzazione Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan ed Azerbaigian, mentre l’Ungheria del premier Orban ne è osservatore.

Inoltre, il presidente turco ha sempre mantenuto accesa la fiamma del nazionalismo turco, sia ad uso interno che ed esterno. Questa terza direttiva ha privilegiato come bersaglio alcuni vicini, come Grecia, Cipro e Siria, ai danni dei quali sono state avanzate più volte rivendicazioni di varia natura.

Come si è concretizzata la politica estera turca

Negli ultimi 10 anni il Paese non si è risparmiato nessun mezzo nel proseguimento dei propri obbiettivi di politica estera. La Turchia di Erdogan ha fatto ricorso sia a strumenti di soft power che a quelli di hard power per aumentare il proprio peso in vari dossier regionali.

Ha utilizzato una retorica ultra-nazionalista per infiammare l’orgoglio nazionale di molti suoi cittadini emigrati nel continente europeo, i quali infatti hanno votato in maggioranza a favore del referendum di riforma costituzionale promosso da Erdogan. Ankara ha utilizzato le minoranze turche in Europa come strumento di pressione verso i governi di alcuni Stati, primo fra tutti la Germania. Ma anche in Olanda, ad esempio, il partito Denk, votato in maggioranza da cittadini di origine turca, ha ricevuto alcune critiche ed è stato da alcuni definito “il braccio di Ankara” nel Paese. Sempre per aumentare la propria leva negoziale nei confronti dell’Unione Europea non ha rinunciato ad utilizzare i flussi migratori come arma di ricatto.

Allo stesso modo, tramite il Dyanet, il Direttorato degli Affari Religiosi, Ankara controlla una rete di moschee in tutta Europa con le quali prova a condizionare le comunità sunnite del continente.

Spesso però, il Paese anatolico ha fatto ricorso anche allo strumento militare, intervenendo direttamente in Libia e Siria e nell’Iraq settentrionale. Nei primi due scenari di conflitto civile, oltre ad utilizzare il proprio esercito regolare, ha fatto uso di mercenari jihadisti. Con l’intento di creare una buffer zone sunnita sotto la propria influenza lungo tutta la frontiera meridionale ha compiuto diverse operazioni militari contro i curdi siriani e contro il PKK nelle aree settentrionali dell’Iraq. Ankara ha anche sviluppato notevolmente il proprio settore della difesa progettando una nuova classe di droni, i Bayraktar TB2, che si sono rivelati risolutivi in diversi scenari di conflitto.

È importante sottolineare come la Turchia abbia inoltre deciso di attuare un atteggiamento da free rider nei vari contesti regionali. Pur appartenendo alla NATO, ha costruito nel corso degli anni una specie di “competizione cooperativa” con l’Iran e la Russia, nel tentativo di dividersi le aree di influenza a scapito dei competitors occidentali o arabi. Ad esempio, con il Processo di Astana ha provato a gestire la risoluzione del conflitto siriano con il maggior padrino politico di Assad, il presidente russo, e con il suo maggior alleato, l’Iran di Rouhani. Lo stesso è avvenuto in Libia, con la Turchia e la Russia che hanno provato a diventare i principali players stranieri a scapito degli altri. Inoltre, nel 2017 la Turchia ha acquistato dalla Russia l’S-400, un sistema missilistico mobile terra-aria. Anche il recente conflitto tra Armenia ed Azerbaigian ha portato alla riproposizione di questa "intesa" tra le due potenze.

Inoltre, nel corso degli ultimi anni, la Turchia ha riscoperto l’elemento marittimo come chiave di espressione della potenza. Quindi, con il concetto di Patria Blu Ankara mira ad imporre la propria egemonia nelle acque del Mediterraneo orientale. Per questo ha perseguito una spietata gunboat diplomacy ai danni di vicini ed alleati, con la volontà di rivendicare parte delle Zone Economiche Esclusive di Atene e Nicosia ed allontanando, con la minaccia dell’uso della forza, le navi di ricognizione e trivellazione di altri Stati dalle aree da lei rivendicate. Famoso è il caso della nave italiana Saipem 12000 bloccata e costretta a lasciare le acque cipriote dalla marina militare turca.

Tuttavia, il cambio di amministrazione a Washington potrebbe indurre Ankara a rivedere alcuni posizionamenti e tornare più collaborativa riguardo alcuni dossier. In tale contesto rileva l’approfondimento delle relazioni con Kiev in funzione anti-russa, forse anche per lanciare un segnale agli USA riguardo il proprio posizionamento atlantico. Anche l’idea del progetto “Canale di Istanbul” potrebbe essere volta a rompere lo status quo garantito dalla Convenzione di Montreux, accordo che Mosca considera di vitale importanza.

A cura di Michele Magistretti

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Fonti consultate per il presente articolo:

https://formiche.net/2020/03/a...

https://it.insideover.com/poli...

https://www.huffingtonpost.it/...

https://www.analisidifesa.it/2...

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Medio Oriente nord africa