La libertà di religione in Nigeria

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  Alice Stillone
  16 June 2021
  4 minutes, 5 seconds

La Nigeria è una Repubblica Federale composta da 36 Stati dotati di una propria Costituzione, ognuna delle quali rimane subordinata alla Costituzione Federale il cui primato è innegabile.

Sin dalla nascita dell’attuale Federazione, nata come aggregazione di protettorati britannici tra loro indipendenti, la Nigeria è stata caratterizzata da una densa presenza di etnie conviventi con le due religioni più diffuse al mondo, Islam e Cristianesimo. Data la significativa mescolanza etnica e religiosa, le tensioni sono sempre state all’ordine del giorno ma hanno iniziato a diffondersi con maggiore enfasi all’inizio degli anni ’70, quando la crescita economica si accompagnò alla proliferazione di gruppi islamici estremisti. Questi scontri hanno impedito l’effettiva realizzazione della libertà religiosa in un sistema caratterizzato dall’essere sempre in bilico tra le due grandi religioni che non sono mai riuscite a convivere pacificamente. In Nigeria, l’evoluzione storico-politica che negli Stati occidentali ha portato a trasformazioni sociali sfociate nell’affermazione della laicità dello Stato come principio assodato in molte Costituzioni, non ha mai avuto luogo e le forme di intolleranza sono spesso sfociate in episodi di violenza.

La situazione si è ulteriormente aggravata nel gennaio del 2000, quando nel diritto penale di 12 dei 19 Stati settentrionali nigeriani, (Bauchi, Borno, Gombe, Jigawa, Kaduna, Kano, Katsina, Kebbi, Niger, Sokoto, Yobe e Zamfara) è stata reintrodotta la Shari’a, con la conseguente imposizione di leggi islamiche anche a cittadini non musulmani.
Tali Stati hanno giustificato l’esigenza della reintroduzione della Shari’a sostenendo la funzione sociale della religione islamica quale strumento per combattere povertà e immoralità. Tuttavia, il confine tra la funzione sociale esercitata dall’Islam e l’imposizione di questa religione con conseguente violazione della libertà religiosa, in questo preciso contesto, è molto labile.

In particolare, l’art. 38 del Capitolo IV della Costituzione Federale sancisce che ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, incluse la possibilità di cambiare la propria religione o il proprio credo, la libertà di manifestare, propagandare e insegnare le proprie pratiche religiose.

Concretamente, il fatto che la Shari’a sia stata reintrodotta nel diritto penale di 12 dei 36 Stati significa che, nonostante storicamente gli Stati del nord siano caratterizzati dalla presenza di una popolazione prevalentemente musulmana, nel territorio potrebbero esservi alcuni cittadini non musulmani che si troverebbero a essere giudicati tramite leggi civili e penali islamiche.

Infatti, il fatto che ciascuno Stato sia dotato di una propria Costituzione non dovrebbe infierire sul supremo valore della Costituzione Federale che invece deve rimanere un postulato innegabile. In altre parole, tutte le leggi adottate da ciascuno dei 36 Stati non devono essere contrarie ai precetti costituzionali.

L’art. 277 comma 2, lett. b della Costituzione Federale riguardo le competenze della Corte d’Appello della Shari’a, sancisce espressamente che la suddetta Corte ha giurisdizione nei soli procedimenti in cui tutte le parti coinvolte sono di religione islamica.

Poiché il fatto di essere cittadino di uno Stato del nord non implica necessariamente che tale cittadino sia di religione islamica, la reintroduzione del diritto penale islamico nel settentrione della Federazione è uno strumento potenzialmente in grado di discriminare coloro che non si identificano nei precetti della religione islamica. Inoltre, considerato che la Federazione si contraddistingue storicamente per la compresenza di più etnie e religioni, il pericolo di violazione della libertà religiosa è significativo e costante.

A livello internazionale, vi sono obblighi giuridici derivanti da alcuni trattati che vincolano la Federazione al rispetto di alcuni standard sui diritti umani. Ci si riferisce in particolare, oltre alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, al Patto sui diritti civili e politici del 1966 ratificato dalla Repubblica federale Nigeriana nel 1993. Tale patto sancisce all’art. 2 che “ciascuno degli Stati parte del presente Patto si impegna a rispettare e a garantire a tutti gli individui che si trovano sul suo territorio e sotto la sua giurisdizione i diritti riconosciuti nel Patto senza distinzione fondata (…) sulla religione”. Ancora, all’art. 26 Tutti gli individui sono eguali dinanzi alla legge (…) la legge deve proibire qualsiasi discriminazione e garantire a tutti gli individui una tutela eguale ed effettiva contro ogni discriminazione fondata (…) sulla religione”.

È probabile che le instabilità socio-politiche che hanno caratterizzato nel passato storico e recente la Repubblica Federale Nigeriana, abbiano contribuito a rendere precario il rispetto dei diritti umani e, in particolare, quello alla libertà religiosa. Tuttavia, è innegabile che la proposta di reintroduzione della legge penale islamica nella maggioranza degli Stati del nord, oltre a essere evidentemente in contrasto con leggi interne e internazionali, ha un potenziale impatto negativo molto forte sulla popolazione non musulmana.

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