La discriminazione delle persone transgender in Giappone

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  Sara Scarano
  12 October 2021
  4 minutes, 36 seconds

Secondo il report “Society at Glance” - datato 2019 [1] - il Giappone si colloca tra i paesi dell’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) in cui il livello d'inclusività ed accettazione sociale nei confronti delle persone LGBTQ+ è in crescita, pur restando, tuttavia, ancora gravemente carente in aree quali discriminazione sul lavoro e matrimonio egualitario. Tra tali mancanze, la più evidente è costituita dal trattamento che la società giapponese riserva alle persone transessuali.

In Giappone, coloro che vogliono modificare legalmente il proprio genere devono presentare appello presso un tribunale della famiglia, nel rispetto del “Gender Identity Disorder Special Cases Act”, ovvero della legislazione vigente in materia dal 2004. Tale legge richiede ai candidati di sottoporsi ad una valutazione psichiatrica per essere diagnosticati con un “disordine d’identità di genere” (GID) – ovvero un disturbo psicologico in cui un individuo esibisce un’identificazione marcata e persistente con il sesso opposto – per poi, successivamente, subire una completa sterilizzazione. Il presupposto fondante di tale legge è l’associazione operata tra identità transgender e disturbo psichico e costringe gli individui ad un’operazione chirurgica intrusiva, costosa ed irreversibile. La procedura di sterilizzazione è richiesta in virtù di un’ipotetica paura di compromettere l’ordine della società giapponese – o “creare confusione” come affermato dalla Corte Suprema giapponese nel 2019 – nel caso in cui le persone transessuali mantengano intatta la propria capacità riproduttiva. A causa di tali presupposti discriminatori e scientificamente infondati, la legge GID è stata riconosciuta come contraria alla legislazione internazionale a protezione dei diritti umani, nonché agli standard internazionali di pratiche mediche ottimali. Ciononostante, questi stessi presupposti rimangono tutt’oggi alla base dell’analisi di governo nipponica.

La procedura di sterilizzazione come condizione determinante per il riconoscimento legale comporta l’impossibilità di vedere la propria identità riconosciuta per coloro che non hanno le possibilità economiche o le condizioni di salute necessarie per sottoporsi a tale intervento. Inoltre, esiste una marcata differenza nelle possibilità di accesso alle cliniche mediche tra le aree metropolitane e quelle rurali del Paese.

I requisiti legali per il riconoscimento di un genere diverso da quello attribuito alla nascita sui propri documenti ufficiali sono particolarmente dannosi per i più giovani. La legge GID, infatti, stabilisce l’età minima di 20 anni per avviare il procedimento legale e medico e sancisce come condizione sine qua non quella di conformarsi pienamente agli stereotipi del genere verso il quale si compie la transizione, rimarcando la piena volontà della società giapponese di mantenere inalterato il binarismo di genere in termini sia di aspetto fisico che di comportamenti. In tal modo, il GID Act impatta negativamente sul diritto all’integrità fisica, alla privacy ed all’autonomia di coloro che hanno un’età inferiore ai 20 anni e che percepiscono una disforia rispetto al proprio genere.

Inoltre, la presenza del requisito di non aver contratto matrimonio e non avere figli minori implica il divorzio obbligatorio per persone transgender che presentano domanda di riconoscimento legale. Tale requisito si collega ad un’altra problematica presente in Giappone, ovvero il mancato riconoscimento del matrimonio omosessuale, oltre a precludere completamente la possibilità di ottenere nuovi documenti per coloro che hanno figli.

Anche l’assenza di documenti d’identità che presentino il genere corretto è infatti per gli individui transgender una fonte di problemi, che spaziano da possibili umiliazioni durante l’assistenza sanitaria a discriminazioni sul posto di lavoro. Infatti, il Giappone non dispone di leggi contro la discriminazione basate su orientamento sessuale e identità di genere. Per questa ragione, i più giovani subiscono forti pressioni al fine di completare la transizione prima dell’ingresso nel mercato del lavoro (normalmente all’età di 22 anni, con il completamento del percorso universitario). Tutto ciò si aggiunge alla già forte pressione psicologica che tali individui subiscono in un contesto sociale che rende oltremodo difficile il riconoscimento della propria identità, generando problemi quali disturbi d’ansia e depressione.

Ciononostante, l’imposizione di interventi chirurgici obbligatori equivale a coercizione, ed imporre tale condizione per un riconoscimento legale del proprio genere di appartenenza costituisce una violazione di diritti quali il diritto alla privacy, alla libertà di espressione, all’educazione ed al lavoro dignitoso, alla salute. Per tali motivi la stessa patologia di Gender Identity Disorder non esiste più a livello internazionale, in quanto sia l’American Psychiatric Association’s Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders e l’OMS l’hanno rimossa dalla lista di diagnosi.

Gli standard internazionali in materia di diritti umani sanciscono una separazione tra la sfera legale e quella medica in tema di riassegnazione del genere per gli individui transgender ed il Giappone è stato il destinatario di raccomandazioni formali al fine di ridefinire la legge sul Gender Identity Disorder durante la Revisione Periodica Universale a cui è stato sottoposto nel 2017-2018 presso il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra. A tali raccomandazioni il Governo nipponico ha risposto sancendo il suo impegno a prendere provvedimenti prima del prossimo riesame nel 2022. In aggiunta a ciò, il Consiglio Scientifico del Giappone – organizzazione indipendente sotto il ministero del gabinetto, che rappresenta gli scienziati giapponesi nelle scienze sociali, nelle scienze della vita, nelle scienze naturali e nell'ingegneria – in un rapporto pubblicato nel settembre 2017 raccomandava di rimuovere la terminologia “Gender Identity Disorder” a favore dell’adozione della terminologia “incongruenza di genere”.

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Sara Scarano

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Giappone transgender LGBT+ LGBT+ rights