La crisi in Yemen e il doppio intervento americano

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  Redazione
  20 May 2018
  7 minutes, 36 seconds

A cura di Vincenzo Battaglia

Lo Yemen è entrato da pochi mesi nel suo quarto anno di guerra: dal marzo del 2015 la coalizione araba a guida saudita è coinvolta in una controversa campagna militare finalizzata alla liberazione dei territori yemeniti occupati dagli huthi – tra cui la capitale Sana’a. Nonostante il considerevole impegno e le numerose bombe sganciate, l’Arabia Saudita è oggi in Yemen un attore meno influente rispetto a quanto lo fosse prima dell’intervento. Di contro, altri stati quali gli Emirati Arabi e l’Iran, stanno assumendo un notevole peso geo-politico in loco. In particolare Teheran, storico nemico di Riyadh, ha incrementato il livello d’ingerenza nel paese, sostenendo militarmente ed economicamente gli huthi - il gruppo armato yemenita prevalentemente sciita zaydita. Attraverso tale supporto, l’Iran sta tentando di mettere sotto pressione l’Arabia Saudita, tenendola impegnata su un fronte (quasi) interno e distanziandola da altri ove Teheran esercita la propria influenza (Libano, Siria, Iraq). Pertanto, il Regno wahabita è costantemente sottoposto alla minaccia missilistica degli huthi. Dal 2015 gli insorti filo-sciiti hanno scagliato più di 100 missili in Arabia Saudita e nei primi mesi del 2018, la frequenza degli attacchi si è intensificata (circa 30) in risposta ai bombardamenti della coalizione araba in Yemen. L’episodio più grave si è verificato nella notte tra il 25 e il 26 marzo, quando gli huthi hanno lanciato 7 razzi contro il Regno, causando la morte di un residente egiziano a Riyadh - colpito dai detriti del missile.

Questi sviluppi segnalano l’attuale stato di guardia saudita, mai stato così elevato dai tempi della Prima guerra del Golfo. Per tale motivazione, gli Stati Uniti avrebbero deciso di stanziare alcuni dei propri berretti verdi - ovvero le forze speciali dell’esercito - al confine tra Arabia Saudita e Yemen nel dicembre 2017. Questa notizia è trapelata grazie ad un’inchiesta del quotidiano americano New York Times, il quale si è avvalso della testimonianza di diversi ufficiali statunitensi e diplomatici europei. Il compito dei Green Berets sarebbe quello di garantire un certo livello di sicurezza dei confini, addestrando a tal fine le forze saudite ed aiutandole a localizzare e distruggere i missili di cui sono in possesso gli Huthi. Ciò testimonia l’aumento del coinvolgimento militare americano nell’ambito del conflitto tra i sauditi e gli insorti sciiti sostenuti dall’Iran. Tuttavia, l’azione dei berretti verdi contraddice la dichiarazione rilasciata dall’amministrazione Trump circa le modalità di intervento nel teatro operativo yemenita. Quest’ultima, infatti, limitava l’assistenza statunitense alle monarchie del Golfo ai soli casi di supporto logistico e condivisione di intelligence (cosi' come aveva stabilito Obama). Inoltre, la presenza delle forze speciali americane pone in risalto l’odierno rafforzamento delle relazioni tra gli Usa e l’Arabia Saudita. Il primo viaggio all’estero di Trump, una volta divenuto presidente, è stato proprio nel Regno wahabita come segnale di avvicinamento tra Washington e Riyadh. Capovolgendo i dettami di politica estera di Obama nel Medio Oriente, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha creato un asse privilegiato con l’Arabia Saudita (che ricomprende anche Israele) in funzione anti-iraniana. Il consolidamento dei rapporti tra i due stati è confermato altresì dalla stipulazione di diversi accordi, riguardanti innanzitutto la fornitura di armi. In ultimo, lo scorso marzo, in occasione della visita del giovane leader saudita Bin Salman negli Usa, il Dipartimento di Stato americano ha dichiarato di aver concluso un contratto per la vendita di armi del valore di circa 670 milioni di dollari.

L’intervento americano in Yemen è da considerarsi doppio (una sorta di “guerra nella guerra”): oltre al supporto della coalizione araba, gli Usa sono impegnati militarmente nell’ambito della lotta al terrorismo. Tra i gruppi islamici radicali, stanziati principalmente nel sud del paese, spicca la branca locale di Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Nel territorio yemenita, i qaedisti hanno finora monopolizzato la galassia jihadista e dispongono di una robusta rete di alleanze con diverse tribù locali. Inoltre, Aqap gode di importanti risorse finanziarie derivanti in primo luogo dalle attività di contrabbando e dalle tasse di trasporto e portuali delle aree controllate. Negli ultimi anni, ed in particolare dall’inizio del conflitto civile in Yemen, Al Qaeda ha approfittato delle dinamiche interne per consolidare la propria presenza nei territori meridionali e orientali del paese. Per quanto concerne invece lo Stato Islamico, questo è apparso per la prima volta in Yemen nel novembre del 2014. I seguaci del sedicente califfato non sono comunque riusciti ad imporsi e vincere la sfida del reclutamento nei confronti di Aqap, che rimane la cellula terroristica predominante nella Penisola Arabica.

Dal gennaio dello scorso anno, gli Usa hanno progressivamente intensificato le operazioni di counter terrorism in Yemen. Non a caso, nel 2017 l’aviazione americana ha perpetrato più di 130 raid aerei contro i militanti jihadisti - contro i circa 40 attacchi nel 2016 e 23 nel 2015. Il portavoce del Pentagono, il capitano Jeff Davis, ha dichiarato che l’obiettivo di queste operazioni è quello di distruggere le capacità di Al Qaeda di organizzare e coordinare le proprie azioni terroristiche. Sebbene i target principali di tale offensiva siano i membri di Aqap, gli Usa hanno indirizzato i propri sforzi anche contro le basi operative dello Stato islamico in Yemen. Infatti, nell’ottobre del 2017 gli Stati Uniti hanno colpito per la prima volta due campi di addestramento dell’IS in Yemen, uccidendo una decina di miliziani islamici. L’attacco è avvenuto nella regione centrale di Al-Bayda, uno dei pochi distretti in cui lo Stato islamico è stato in grado di affermarsi. Nella stessa area, a sua volta, Aqap è profondamente radicato grazie ad importanti alleanze tribali. Da qui, i jihadisti possono spostarsi comodamente verso i governatorati limitrofi di Shawba e Abyan, la cui posizione geografica è strategicamente rilevante. Non sorprende pertanto che in tali territori, gli Stati Uniti, con l’ausilio di milizie locali e delle forze speciali emiratine, abbiano avviato due operazioni parallele di counter-terrorism – contro l’IS da una parte e contro Al Qaeda dall’altra. Difatti, nove mesi prima rispetto al raid sovra menzionato, il commando degli Usa ha condotto un attacco contro Aqap nella stessa regione di Al-Bayda. Nel corso di questo intervento, considerato “controverso” da diversi media statunitensi, un soldato delle forze speciali è rimasto ucciso. Egli rappresenta la prima vittima americana dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca.

Malgrado il notevole incremento delle operazioni di contro terrorismo nella Penisola Arabica, diversi fattori di instabilità interna (combinati con dinamiche regionali) giocano a favore delle varie cellule islamiche radicali ubicate in Yemen. In prima istanza, occorre considerare la spaccatura tra chi sostiene il governo del presidente Hadi (attualmente stanziato ad Aden) e il Consiglio politico di transizione, che rivendica le istanze secessionistiche del sud del paese. Lo sfaldamento dei due blocchi è per di più alimentato dal sostegno degli Emirati Arabi ai movimenti politici meridionali che invocano l’indipendenza. Cosi facendo, Abu Dhabi sta tentando di creare un’area di influenza geo-strategica nel sud dello Yemen. Un altro aspetto alquanto problematico è l’ondata di violenza generatasi tra gli huthi e i fedeli dell’ex presidente Saleh. Questi, nonostante il fronte comune durante il colpo di stato del 2015, hanno sempre avuto delle relazioni estremamente complesse. Negli ultimi mesi, i rapporti tra le due fazioni si sono inaspriti ulteriormente a seguito dell’uccisione di Saleh - rivendicata dagli huthi - nel dicembre 2017. Egli stava mostrando segnali di avvicinamento all’Arabia Saudita, cosa non affatto gradita dagli insorti filo-sciiti. Inoltre, questa crescente rissosità interna è aggravata da altre piccole ma numerose guerre locali e tribali. Dunque, gli elementi appena descritti sono in grado di innescare maggiori fratture, con complicazioni evidenti sulla sicurezza dello stato yemenita, che rappresenta attualmente il principale terreno di scontro della “Guerra Fredda Mediorientale” tra Riyadh e Teheran. Ovviamente, tutti questi aspetti facilitano il consolidamento dei gruppi jihadisti che traggono forti vantaggi dal mal funzionamento della macchina statuale e dai fattori destabilizzanti interni. Per giunta, in questo contesto terribilmente fragile, sia Aqap che IS potrebbero godere di spazi ideologici e di reclutamento più ampi rispetto a quanto hanno avuto finora: in particolare nelle regioni meridionali, dove entrambi i movimenti islamici potrebbero far leva sui rancori tribali e regionali. Sulla base di quanto detto, possiamo affermare che i terroristi basano la propria forza su essenzialmente tre fattori: - debolezza e fragilità degli attori statali - instabilità interna e competizione tra diverse fazioni politiche/militari - malcontento e rancore della popolazione. Lo Yemen, come del resto Siria e Libia, contiene tutte e tre le problematiche sopra citate. Finché queste permangono, nessuna bomba sganciata potrà debellare del tutto il fenomeno del terrorismo in questo territorio.

Al di là di tutte le complessità politiche, sociali e militari, è opportuno ricordare che la crisi yemenita è innanzitutto una crisi umanitaria. Dall’inizio del confilitto, più di 10.000 yemeniti (moltissimi dei quali civili) sono deceduti. L’Ufficio per il coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha dichiarato che oltre 20 milioni di persone, su un totale di 27 milioni, necessitano di assistenza umanitaria. Inoltre, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifiugiati ha affermato che i profughi interni sono circa 2 milioni.

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