Il vertice di Al-Ula: tra svolta e questioni irrisolte

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  Michele Magistretti
  21 February 2021
  6 minutes, 2 seconds

Il 5 gennaio si è tenuto il summit annuale del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) presso il sito archeologico saudita di Al-Ula. L’incontro si è rivelato un turning point riguardo lo stallo che l’organizzazione vive dal giugno 2017. Alla fine dell’incontro, i Paesi dell’organizzazione hanno deciso terminare ufficialmente l’embargo nei confronti di uno dei membri: il Qatar. Considerando gli ultimi anni di forte contrapposizione fra parte dei membri ed il piccolo emirato, tale atto viene considerato da alcuni come un considerevole cambio di passo nelle relazioni tra i componenti dell’organizzazione araba. Occorre quindi analizzare come si è concretizzato tale riavvicinamento e quali siano le possibili prospettive future, dato il permanere di alcuni nodi irrisolti.

Alle radici della crisi

Dal 2017 si è formalizzata la rottura tra alcuni dei componenti del CCG. Il leader dell’organismo, l’Arabia Saudita - sostenuto da Bahrein ed Emirati Arabi Uniti - ha dato impulso ad un duro e severo embargo ed isolamento terrestre e aereo ai danni del Qatar. Tale decisione deriva dalla volontà di obbligare il Qatar, in maniera coercitiva, a rivedere il proprio indirizzo di politica regionale. Il piccolo emirato viene accusato infatti da Riad e dagli emiratini di sponsorizzare alcuni gruppi jihadisti e l’Islam Politico. In particolare, l’appoggio alla Fratellanza Musulmana, movimento repubblicano di stampo islamico, viene considerato una minaccia esistenziale dalla monarchia saudita e dalla federazione emiratina in quanto minerebbe la stessa legittimità del loro potere. I due potentati arabi traggono infatti la propria legittimità politica dalla custodia dei luoghi sacri - questo vale per solo i sauditi - e dal patto sociale tipico del rentier state. In questi due paesi la gestione del potere è gerarchizzata e per monopolio delle famiglie reali il repubblicanesimo islamico è considerato una delle principali minacce alla stabilità interna. Inoltre, attraverso Al Jazeera, principale network di informazione arabo con sede a Doha, il Qatar si è reso megafono delle primavere arabe e dei movimenti islamisti repubblicani che hanno guidato o tentato di guidare le rivolte.

Le ragioni della “svolta”

Dopo anni di confronto vari fattori sembrano aver influenzato il cambio di prospettiva dei promotori dell’embargo, in particolare dell’Arabia Saudita. Innanzitutto, rileva la capacità di resistenza di Doha, la quale è riuscita a coagulare attorno a se un composito asse contrario a quello promosso da Riad ed Abu Dhabi. Negli ultimi quattro anni ha intensificato i rapporti con Turchia, Pakistan e Malesia ed ha manutenuto un atteggiamento dialogante con l’Iran.

Inoltre, all’interno dello stesso Consiglio vi sono sempre stati atteggiamenti diversi rispetto al piccolo emirato “ribelle”. Oman e Kuwait si sono sempre fatti promotori di un dialogo ed hanno sempre lavorato intensamente per una rappacificazione. Questi due Paesi sono caratterizzati da una politica estera che ha come stella polare la stabilità e la pacificazione regionale, anche perché queste si rivelano necessarie per la stabilità interna degli stessi. Inoltre, sia l’Oman che il Kuwait vedono nella riappacificazione uno strumento per bilanciare l’influenza degli ingombranti vicini.

Tra le molteplici cause della svolta vanno sicuramente menzionate le difficoltà che deve affrontare la leadership saudita negli ultimi tempi. Sotto la direzione del principe ereditario Mohammad Bin Salman il Paese si è impantano nel conflitto yemenita ed è stato ciclicamente scosso dalle faide intra-familiari represse con il pugno di ferro dallo stesso MBS. Inoltre, l’omicidio del giornalista Khashoggi ha macchiato l’immagine stessa di riformatore che il principe ha provato a costruirsi. Anche il processo di modernizzazione e diversificazione economica stenta a decollare. Infine, la perenne pubblicità negativa propagandata dall’emittente qatariota, Al Jazeera, ai danni di Riad ed Abu Dhabi deve aver pesato sulla scelta di tentare la via della rappacificazione con il proprietario della stessa, l’emiro di Doha appunto.

Sicuramente, però, anche la vittoria del democratico Joe Biden nelle elezioni presidenziali USA deve aver fatto suonare un campanello d’allarme nelle capitali dei principali promotori dell’embargo. Innanzitutto, va ricordato come già dai tempi di Obama sono venute creandosi delle sinergie di intenti tra i dem USA ed il piccolo emirato riguardo la politica regionale. Inoltre, lo stesso Joe Biden in passato si è espresso più volte contro la condotta di politica estera dei sauditi ed ha condannato con fermezza l’omicidio del giornalista dissidente. La nuova amministrazione democratica sembra decisa ad operare per un sostanziale cambio di rotta riguardo la politica mediorientale. Sono passati i tempi in cui Washington concedeva un assegno in bianco a Riad nella gestione della propria politica regionale. Infatti, nelle settimane successive all’insediamento, il presidente americano ha bloccato la vendita di armamenti a Riad ed Abu Dhabi, con motivazioni di carattere umanitario riguardo il conflitto yemenita, in cui entrambi i Paesi arabi sono coinvolti in vario modo.

I nodi irrisolti e le prospettive future

Al termine del summit, con la dichiarazione finale, il Qatar ed i Paesi confinanti formalizzano la ritrovata armonia ed auspicano un ulteriore proseguimento delle proprie relazioni con il fine di rafforzare la collaborazione nei vari campi di azione del CCG. Si rileva però un particolare, nessuna delle tredici richieste formulate dai promotori dell’embargo viene soddisfatta dal Qatar. Tra queste vi sono l’abbandono del sostegno ad Hamas, alla Fratellanza Musulmana, la presa di distanza da Teheran ed il ritiro dei militari turchi dal paese. Doha prende solo l’impegno di ritirare le cause legali contro il trio avversario.

Insomma, le cause alla radice dello scontro non vengono risolte. L’accordo stesso è in realtà accolto con freddezza se non obtorto collo dagli emiratini. Non a caso, negli ultimi anni Abu Dhabi ha intrapreso un percorso sempre più autonomo dalla stessa Riad riguardo la politica regionale. Inoltre, sotto la guida di un altro principe ereditario, Mohammed Bin Zayed, Abu Dhabi ha fatto del contrasto all’islamismo e all’espansionismo di Ankara - principale alleato di Doha - le principali direttive di politica estera. Doha ed Abu Dhabi hanno letteralmente trasferito la propria rivalità in ogni confitto regionale. In Libia Doha sostiene il GNA tripolino, mentre Abu Dhabi il generale Haftar del LNA. In Somalia Doha sostiene, sempre insieme alla Turchia, il governo di Mogadiscio mentre gli emiratini le regioni separatiste di Somaliland e Puntland. Gli Emirati sono stati tra i primi a ristabilire rapporti con il regime siriano di Assad, mentre Ankara e Qatar finanziano le sigle jihadiste dell’enclave di Idlib. Anche gli sconvolgimenti interni del Sudan hanno visto contrapporsi le due potenze: Abu Dhabi sostiene il Consiglio Militare di Transizione ed il Qatar le sigle islamiste del paese.

Quindi, due degli attori principali sembrano avere interessi strategici difficilmente conciliabili. Nel mentre, la potenza principale del CCG sembra vittima del suo stesso peso e pare abbia optato per la conciliazione più per convenienza che per convinzione. Per Riad la minaccia principale rimane Teheran e per questo deve mal digerire l’atteggiamento ambiguo di Doha nei confronti della potenza persiana. La possibilità di una definitiva e solida riconciliazione pare quindi incerta e la strada per ottenerla non manca di ostacoli.

Fonti consultate per il presente articolo:

https://responsiblestatecraft....

https://formiche.net/2021/01/l...

https://www.crisisgroup.org/mi...

https://unsplash.com/it/foto/a...



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