Il caso delle sterilizzazioni forzate in Perù sotto il governo Fujimori

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  Redazione
  11 May 2021
  3 minutes, 43 seconds

Si sta tenendo in questi giorni il processo contro Alberto Fujimori, presidente del Perù dal 1990 al 2000, e contro i suoi ex Ministri della Sanità per i casi di sterilizzazione forzata attuati dal governo nel periodo 1996-2000.

L'ex presidente si trova già in carcere per scontare una condanna per crimini contro l'umanità a causa delle nefandezze compiute dall'esercito e dagli squadroni della morte al soldo del governo durante il suo mandato (trasformatosi poi in dittatura, con un autogolpe compiuto per ottenere i pieni poteri nel 1992) nella guerra contro il gruppo insurrezionalista sendero luminoso, conclusasi ufficialmente nel 2000 con l'arresto dei capi del movimento.

La guerriglia, durata vent'anni, ha visto come principale teatro degli scontri le alte montagne, nonché i paesi e le cittadine abitati prevalentemente da indios quechua, che puntellano la sierra andina.

I crimini commessi dall'esercito, che includono uso sistematico della tortura, sparizioni, esecuzioni extragiudiziali e arresti senza processo, sono stati compiuti non solo contro i senderisti, ma in larghissima parte anche contro i campesinos indigeni, che nessuna colpa avevano se non quella di trovarsi in mezzo agli scontri.

Il lavoro della Comisión de Verdad y Reconciliación, gruppo di ricerca che negli anni seguenti alla fine del conflitto ha lavorato per portare alla luce la verità su quanto successo nei vent'anni di guerra e per istituire un piano di risarcimento delle vittime, ha dimostrato che l'impronta razzista dell'esercito ha avuto un grande peso nel comportamento dei soldati; la società peruviana, infatti, è tutt'oggi avvelenata da un razzismo sistemico nei confronti dei discendenti degli Inca.

Nonostante questo, però, Fujimori nel 1996 diede inizio al Programa Nacional de Salud Reproductiva y Planificación Familiar (PNSRPF), un progetto di lotta alla povertà rivolto prevalentemente a chi viveva negli isolati paesini sulle Ande, e che molto spesso non aveva (né ha tuttora) accesso ad un'educazione sessuale di alcun tipo né tantomeno a forme di contraccezione. La campagna aveva quindi come obiettivo quello di sensibilizzare le donne e gli uomini sul controllo delle nascite, ed aiutare le prime a sviluppare una maggiore consapevolezza del proprio corpo e dei propri diritti riproduttivi.

Il progetto, durato fino alle dimissioni del presidente, travolto da scandali di corruzione, prevedeva anche la sterilizzazione delle donne attraverso la chiusura delle tube, o, in altri casi, la vasectomia per gli uomini.

Molte donne, però, denunciarono di aver subìto l'operazione contro la loro volontà. Per la maggior parte giovani e analfabete, erano state costrette a firmare con l'inganno i documenti scritti solo in spagnolo: la lingua madre degli indios che vivono sulle Ande è il quechua nelle sue varie versioni, e molti di loro non parlano una parola di castigliano.

Già dopo poco più di sei mesi dall'inizio del programma anche Luis Bambarén Gastelmundi, vescovo di Chimbote e segretario della Conferenza Episcopale Peruviana, aveva denunciato questa situazione affermando che il piano di Fujimori, più che una lotta contro la povertà, sembrava una lotta contro i poveri. La società decise però di non ascoltare la sua voce, e il programma continuò.

Inizialmente ignorate e non credute, spesso rifiutate dai mariti e dalla comunità in quanto sterili, queste donne hanno dovuto aspettare più di vent'anni prima che la loro verità venisse presa in considerazione. Solo nel 2016 sono iniziate le indagini sui numerosi casi di sterilizzazione forzata ed è stato istituito il REVIESFO, ovvero il Registro de Víctimas de Esterilizaciones Forzadas[1]: un registro amministrativo che potesse raccogliere tutte le denunce di chi aveva subìto tale pratica contro la propria volontà. Dopo anni di indagini, il governo è arrivato a contare oltre 350mila sterilizzazioni[2], e ha dato inizio al processo contro l'ex presidente e gli allora Ministri della Sanità per quanto accaduto.

In attesa di sapere cosa decideranno i giudici, non ci resta che sperare che queste donne ricevano un risarcimento (seppur, in ogni caso, insufficiente) per quanto subìto, e che non accada di nuovo che il corpo delle donne diventi uno strumento di controllo razzista.

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a cura di Simona Sora

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