Elezioni in Palestina: rinvio ad interim? [Parte 2]

Il sistema politico palestinese

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  Sara Oldani
  04 giugno 2021
  8 minuti, 33 secondi

Come analizzato nel precedente Focus, l’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah - una necessità in un contesto regionale e internazionale sempre più disinteressato od ostile alla causa palestinese - aveva dato un primo scossone alla vetusta leadership. La tornata elettorale che sarebbe iniziata con le elezioni legislative di maggio, proseguendo con le presidenziali di luglio e terminando con il rinnovo del Consiglio nazionale palestinese dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), è stata però sospesa da Abu Mazen. Ma quali sono/erano i partecipanti alla campagna elettorale? Come è strutturato il sistema partitico palestinese?

La campagna elettorale

Si prevedeva una campagna elettorale assai dinamica e articolata, vista la presenza di 36 liste in corsa: i candidati sono 1400, con 405 donne di cui il 35% con meno di 40 anni, in lizza per 132 seggi [1]. Tale varietà di partecipanti avrebbe creato cambiamenti in seno alle tradizionali coalizioni di potere e portato una ventata di aria fresca in parlamento. Ecco una breve panoramica sul sistema partitico palestinese.

Fatah

Il potere tradizionale è rappresentato da al-Fath (lett. “La conquista”) [2], acronimo che sta per Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese. Esso è stato fondato in Kuwait per volontà di Yasser Arafat e, tra gli altri, di Abu Mazen nei tardi anni’50 a seguito della Nakba (“catastrofe” in arabo) [3]. Nasce come movimento di resistenza armata di stampo secolare contro Israele con l’obiettivo di liberare la Palestina storica, con i confini esistenti durante il mandato britannico. Il suo ruolo di primazia avuto nella lotta all’autodeterminazione del popolo palestinese è dovuta al fatto che Fatah ha guidato fin dal 1967 (anno della Guerra dei Sei Giorni che segnò l’inizio dell’occupazione militare israeliana nei Territori palestinesi) l’OLP, che dovrebbe rappresentare diplomaticamente il popolo palestinese. Nel corso degli anni la sua ideologia e la sua strategia sono mutate, passando dall’intransigenza e dalla resistenza armata contro lo Stato ebraico ad una via diplomatica e negoziale culminata negli Accordi di Oslo del 1993 con cui ha riconosciuto Israele [4].

Dagli Accordi di Oslo in poi, Fatah e il suo attuale leader Abu Mazen hanno perso credito e consenso, in quanto sono sempre più distanti dalla “lotta popolare”, diventando delle forze mainstream e garanti dello status quo [5]. Proprio in virtù della cooperazione in materia di sicurezza con Israele, secondo l’analisi dell’Institute for National Security Studies di Tel Aviv “[Abu Mazen] ha garantito una stabilità strategica in Cisgiordania nonostante le profonde scosse dell'ultimo decennio”, “ha permesso che le primavere arabe ignorassero i palestinesi; ha bloccato Hamas. Allo stesso tempo ha aderito a una linea politica dogmatica, perdendo le opportunità politiche”. Inès Abdel Razek, direttrice della sezione advocacy del Palestine Institute for Public Diplomacy, propone una visione più comprensiva secondo la quale Abu Mazen sarebbe solo una pedina del sistema di occupazione e oppressione israeliana: Abu Mazen mantiene lo status quo favorevole ad Israele e in cambio garantisce a sé e al suo entourage privilegi e beni economici [6].

Le defezioni di Fatah

Gli episodi di mal governo, corruzione e clientelismo sono all’ordine del giorno, ma vengono spesso inabissati dalla censura interna. Per protesta contro tale sistema, si sono presentate alle elezioni delle liste indipendenti distaccatesi da Fatah.

La prima di queste si rifà a Mohammad Dahlan, espulso da Fatah nel 2011 per dei dissidi con Abu Mazen e consigliere del principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed [7]. Egli è capo del movimento Democratic Reform Current, che identifica le riforme e il principio democratico come base del suo programma politico. Dahlan, originario di un campo di profughi di Gaza, è supportato in una certa misura dai gazawi, ma gode anche dell’influenza dei Paesi del Golfo, Emirati Arabi in primis. C’è però un problema in merito alla sua candidatura alle elezioni presidenziali: il tribunale di Ramallah lo ha giudicato colpevole in contumacia per appropriazione indebita di conti pubblici e qualora mettesse piede nella “capitale”, verrebbe arrestato. Esistono inoltre dissapori storici tra lo stesso Dahlan e Abu Mazen che ha cercato in ogni modo di screditare l’avversario, nonostante i recenti sondaggi non lo vedano come una minaccia.

Chi, invece, risulterebbe un valido rischio per Abu Mazen e Fatah è proprio Marwan Bargouthi,“il Mandela palestinese che sconta 5 ergastoli nelle prigioni israeliane con l’accusa di terrorismo [8]. La lista, messa in piedi proprio a seguito della sua uscita inaspettata da Fatah, ha come obiettivo il cambiamento radicale della linea politica di Abu Mazen. La sua popolarità data dalla presenza in prima linea durante la Prima e la Seconda Intifada e la sua decisione di appoggiare la lista Hurriyeh (“libertà”) del celebre Nasser al-Qudwa [9], lo rendono il più quotato alle elezioni presidenziali (non potrà partecipare alle elezioni legislative come previsto dallo Statuto dell’ANP). La partecipazione del “Mandela palestinese” alle elezioni è guardata con timore da Israele, in quanto sarebbe difficile continuare con la sua reclusione qualora venisse eletto presidente.

Partecipa alle elezioni anche la serie di partiti affiliati alla Sinistra palestinese [10]. Si tratta di una sinistra frammentata, divisa per posizioni ideologiche e programmi politici, per cui scarsamente incisiva nello spettro politico.

Hamas

Le altre liste rilevanti sono quelle affiliate ad Hamas (“zelo”), movimento radicale che governa la Striscia di Gaza. Per fare un esempio, un capolista è Khalil al-Hayya, numero due dell’ufficio politico di Hamas, invece il candidato alle presidenziali è Ismail Haniyyeh, leader storico di Hamas. Il Movimento di Resistenza Islamica [11] è stato fondato a Gaza nel 1987, subito dopo l’insorgere della Prima Intifada. Esso trae origine dalla Fratellanza Musulmana in Egitto, ma in seguito si struttura in maniera sempre più autonoma, costruendo un’ala armata detta le "brigate di al-Qassam" e dando vita a programmi di welfare per i profughi palestinesi. L’Hamas delle origini si prefiggeva una lotta armata che portasse a liberare la Palestina storica, negando ad Israele la legittimità di esistere, ma nel corso degli anni la sua posizione è divenuta meno intransigente. Infatti, nel 2017 in un programma politico [12], Hamas ha dichiarato di accettare uno Stato palestinese sovrano basato sui confini del 1967 con la garanzia del diritto al ritorno dei palestinesi, riconoscendo implicitamente lo Stato di Israele anche se ufficialmente continua a non farlo. Tale compromesso è dettato da pressioni esterne quali l’isolamento internazionale e da pressioni interne quali la crisi economica e umanitaria nella Striscia.

Nonostante la visione che ha l’Occidente di Hamas, il movimento ha riscosso successo, come già ricordato durante le elezioni legislative del 2006, e recenti sondaggi lo vedevano in testa anche se non da ottenere una maggioranza in Parlamento. Hamas non è un blocco univoco come può sembrare all’apparenza, di fatti vi sono all’interno del partito due ale principali: una più moderata, legata a Ismail Haniyyeh, più vicina al Qatar e una più radicale, ala contemporanea del nuovo leader Yahya Sinwar, più vicina all’Iran [13]. Nonostante l’intransigenza dell’ala capeggiata da Sinwar, è stato comunque firmato l’accordo di riconciliazione con Fatah che ha permesso la programmazione delle elezioni, per cui si capisce come possano essere messe da parte questioni ideologiche per la sopravvivenza politica (di se stessi, non della causa palestinese).

La percezione di fronte alle masse è che il programma politico e ideologico di Hamas sia chiaro, a differenza di quello di Fatah, grazie anche al fattore unificante di fondo che è l’Islam. Inoltre, anche le sue strategie di proselitismo sono bottom-up (avvengono nelle università, nelle moschee, nei centri di aggregazione), contrariamente a Fatah che cerca sostenitori economici per mezzo di sponsor, non dando priorità al collegamento con la società civile.

Quali le conclusioni?

Per riassumere, il partito storico Fatah avrebbe vacillato mentre Hamas avrebbe rischiato di ottenere la maggioranza relativa in Parlamento, cosa non gradita non solo a Israele ma anche a Stati Uniti e Unione Europea che lo ritengono un’organizzazione terroristica, per cui, per l’ennesima volta, il voto dei palestinesi non sarebbe stato riconosciuto e sarebbe finito in un nulla di fatto.

Abu Mazen, leader screditato, avrebbe perso il potere che detiene ormai da 15 anni, cosa che avrebbe sicuramente modificato lo status quo, il quale è sempre più insostenibile e a danno dei diritti dei palestinesi.

Date anche le previsioni dei sondaggi, che verranno descritte nel prossimo Focus, la scelta di sospendere le elezioni non sarebbe altro che una mossa politica.

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L'Autore

Sara Oldani

Sara Oldani, classe 1998, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano e prosegue i suoi studi magistrali a Roma con il curriculum in sicurezza internazionale. Esperta di Medio Oriente e Nord Africa, ha effettuato diversi soggiorni di studio e lavoro in Turchia, Marocco, Palestina ed Israele. Studiosa della lingua araba, vuole aggiungere al suo arsenale linguistico l'ebraico. In Mondo Internazionale Post è Caporedattrice dell'area di politica internazionale, Framing the World.

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