Elezioni in Palestina: rinvio ad interim? [Parte 1]

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  Sara Oldani
  29 maggio 2021
  7 minuti, 55 secondi

Il 22 maggio si sarebbero dovute tenere le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese. La notizia era stata accolta con grande sostegno dalla Comunità internazionale sul piano formale e con un velo di scetticismo da parte dei palestinesi. Tali elezioni, dotate di forte carica simbolica, avrebbero riunito gli abitanti palestinesi della Cisgiordania con quelli della Striscia di Gaza, dopo la rottura nel 2006, dando una scossa allo stallo politico presente nei Territori Palestinesi occupati (compresa Gerusalemme Est). Così non è stato, in quanto Mahmoud Abbas, Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ha deciso di rinviarle a data da destinarsi.

Abu Mazen, nome di battaglia di Mahmoud Abbas, durante una riunione della leadership palestinese a Ramallah [1], ha dichiarato la sospensione delle elezioni palestinesi lo scorso 29 aprile, affermando che non fosse assicurata la partecipazione dei residenti a Gerusalemme Est e votare senza di essi sarebbe stato come commettere “crimine di alto tradimento”, secondo quanto dichiarato da Mahmoud Aloul, leader di al-Fatah e vice di Abu Mazen [2].

Lo scontento dell’opinione pubblica palestinese non si è fatto attendere: si sono verificate manifestazioni e proteste, principalmente nell’area di Ramallah, ma vi è stato anche un forte dibattito su testate giornalistiche indipendenti e social-media. Infatti l’elettorato registratosi per votare, pari al 93% degli aventi diritto [3], si è mostrato fortemente contrario al rinvio, visto come una scelta personale del Presidente: la questione di Gerusalemme sembrerebbe solo il pretesto di un’èlite corrotta, la cui credibilità e legittimità democratica sono perse ormai da tempo, che non vuole rinunciare alle rigide posizioni di potere.


Il contesto storico e geopolitico

Ricordiamo che le ultime elezioni generali risalgono a 15 anni fa, quando Hamas, movimento radicale palestinese [4], risultò vincitore nel 2006. L’esito delle votazioni fu boicottato da Israele, Stati Uniti e Unione europea che minacciarono di ridurre gli aiuti internazionali ai palestinesi, in quanto reputano Hamas un’organizzazione terroristica, a causa del suo coinvolgimento nella stagione di attentati suicidi che ha sconvolto lo Stato di Israele. La vittoria di Hamas non venne accettata neanche dall’Autorità Nazionale Palestinese e scoppiò una vera e propria guerra civile tra le due “fazioni” il che diede un duro colpo non solo alla causa palestinese in sé, ma acuì la frammentazione territoriale, logistica e politica tra Gaza e le enclaves della Cisgiordania [5]. La frattura tra le parti avvenne ufficialmente nel 2007 quando la proposta di formare un governo di unità nazionale non entrò in porto per differenti vedute ideologiche sullo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei palestinesi e sul ruolo degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.

La ricomposizione dello “scontro fratricida” è avvenuta solo lo scorso anno, a seguito dell’entrata in vigore degli Accordi di Abramo che avrebbero dovuto portare la pace in Medio Oriente in ottica trumpiana. Essi, stipulati a Washington tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein il 15 settembre 2020 (allargatisi poi al Sudan e al Marocco) prevedono la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi in questione, la creazione di accordi commerciali e cooperativi nei settori della sicurezza, tecnologia e telecomunicazioni e il congelamento (temporaneo) del piano israeliano di costruzione di ulteriori insediamenti di coloni in Cisgiordania [6], sulla scia dell’Accordo del Secolo del gennaio 2020, progetto dell’ex Presidente Trump volto a risolvere l’annosa questione israelo-palestinese, mettendo al primo posto però gli interessi israeliani [7].

Ma andiamo per gradi. Gli Accordi di Abramo di fatto constano in una dichiarazione generale tra le parti, un trattato bilaterale tra Israele ed Emirati Arabi e un secondo trattato tra Israele e Bahrein (ci si focalizza solo su questi Paesi per non deviare dall’oggetto dell’approfondimento: la causa palestinese). Nel trattato Israele-EAU la questione palestinese viene affrontata in questi termini “impegno comune a lavorare insieme per realizzare una soluzione negoziata al conflitto israelo-palestinese che soddisfi le legittime esigenze e le aspirazioni di entrambi i popoli”, nella cornice di una promozione della pace in Medio Oriente. Nell’accordo Israele-Bahrein si accenna semplicemente a continuare negli sforzi per trovare una soluzione giusta e duratura al conflitto [8]. Già da questi stralci si capisce come la causa palestinese non sia più una priorità (ormai da lungo tempo) per i Paesi arabi e come la creazione di uno Stato palestinese sovrano e indipendente non sia prerequisito per il riconoscimento dello Stato di Israele, superando ufficialmente così un taboo istituzionalizzato nell’iniziativa di pace araba ideata dalla Lega Araba nel 2002 [9].

Tali mosse diplomatiche in chiave anti-iraniana e in parte anti-turca e anti-qatarina messe in campo dalla Casa Bianca e dalle potenze regionali, sono state accolte con sdegno nei Territori Palestinesi sia da Hamas che da Fatah, il quale ha parlato di pugnalata alle spalle, in quanto il vero assente agli Accordi di Abramo è proprio la Palestina [10].

A prescindere dalla specificità degli Accordi di Abramo e dalla competizione regionale, è proprio il contesto internazionale, favorito dall’amministrazione Trump più orientata verso una one-state solution, (rispetto al classico mantra two-states solution della Comunità internazionale) ad aver messo in sordina il diritto all’autodeterminazione della Palestina. Caso emblematico è il già citato Accordo del Secolo o Peace to Prosperity Plan [11], che prevede la creazione di uno “Stato palestinese smilitarizzato” con capitale l’area di Abu Dis nella periferia di Gerusalemme, privato di buona parte del suo territorio (pari al 30% della Cisgiordania), senza alcuna garanzia per il diritto al ritorno dei palestinesi in diaspora. La proposta di annessione unilaterale dei territori sotto completa occupazione israeliana (nella cosiddetta area C) e di gran parte degli allora 132 insediamenti di coloni in Cisgiordania, paventata dal premier Netanyahu nel luglio 2020 [12], ha preoccupato non poco la leadership palestinese.


L’accordo di riconciliazione Fatah-Hamas

Per scongiurare il rischio di isolamento internazionale (che già esiste), i principali partiti politici palestinesi si sono incontrati a più riprese per cercare di superare le proprie divergenze. Così si è arrivati il 24 settembre 2020 ad una prima intesa tra Hamas e Fatah, presso Istanbul [13], primo passo in linea teorica per ricreare un governo di unità nazionale che possa essere più forte politicamente e portatore delle istanze palestinesi ai tavoli delle trattative; nella pratica si è trattato di un compromesso per rispondere a necessità contingenti.

Per Hamas la ricomposizione del contrasto con l’ANP ha obiettivi primariamente economici, uniti a considerazioni di legittimità interna: potrebbe ricevere gli aiuti internazionali gestiti dall’ANP (Hamas non li riceve in quanto etichettato come gruppo terroristico), cercando così di risollevare la drammatica situazione in cui versa la Striscia di Gaza. Fatah e il suo leader Abu Mazen cercano di riguadagnare popolarità, assai bassa a causa dei ripetuti episodi di corruzione e negligenza.

Il memorandum d’intesa finale, firmato presso Il Cairo lo scorso 10 febbraio, prevede “il rispetto e il riconoscimento dei risultati elettorali”, sotto la supervisione del Presidente egiziano al-Sisi, il quale aveva affidato al tribunale di Ramallah l’onere di risolvere eventuali controversie, nonostante i giudici vengano nominati da Abu Mazen stesso e quindi non sia garantito il principio di indipendenza e terzietà della giustizia [14].

Nonostante alcune perplessità, l’apparenza era quella di un fronte unito e pronto a partecipare ad un processo democratico, con una forza contrattuale maggiore, qualora la nuova amministrazione Biden avesse voluto riaprire il dossier [15].

La prospettiva di implementazione dell’accordo di riconciliazione si trova però ad un punto fermo, a causa della decisione di Abu Mazen di rinviare a data da destinarsi le elezioni. È prevalsa la paura di perdere le posizioni di potere, a scapito dei diritti del popolo palestinese.

Fonti consultate

[1] Ramallah è la capitale de facto dell’Autorità Nazionale Palestinese

[2] A. Hass, Internazionale, A chi fa comodo il rinvio delle elezioni palestinesi, 7/05/2021, https://www.internazionale.it/opinione/amira-hass/2021/05/07/elezioni-palestinesi-abu-mazen-israele

[3] Ibidem

[4] Hamas è un partito politico di ispirazione islamica (riceve infatti finanziamenti da Turchia e Qatar, paladini della Fratellanza Musulmana) ed è anche dotato di un’ala armata conosciuta come le brigate al-Qassam, addestrata e finanziata dall’Iran e dai suoi proxies. Per un approfondimento sulla sua genesi e la sua struttura vedasi il libro “Hamas: che cos’è e cosa vuole il movimento radicale palestinese”, Paola Caridi, 2009.

[5] REUTERS, TIMELINE: Key events since 2006 Hamas election victory, 20/06/2007, https://www.reuters.com/article/us-palestinians-timeline-idUSL1752364420070620

[6] ISPI, Israele, Emirati e Bahrein: l’accordo di Trump, 15/09/2020 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-emirati-e-bahrein-laccordo-di-trump-27416.

[7] G. Dentice, ISPI, Dal piano Trump agli accordi di Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Focus Mediterraneo allargato n.14, 23/09/2020, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/dal-piano-trump-agli-accordi-di-israele-con-emirati-arabi-uniti-e-bahrain-27578#n1

[8] Ibidem

[9] In base all’iniziativa di pace araba nessuno Stato della Lega Araba avrebbe dovuto stabilire relazioni con Israele prima della creazione di uno Stato palestinese indipendente e del ritiro di tutti i cittadini israeliani dalla Palestina.

[10] ISPI, Israele, Emirati e Bahrein: l’accordo di Trump, 15/09/2020 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-emirati-e-bahrein-laccordo-di-trump-27416

[11] White House, Peace to Prosperity: a Vision to Improve the Lives of the Palestinian and Israeli People, 28/01/2020, https://www.un.org/unispal/document/peace-to-prosperity-a-vision-to-improve-the-lives-of-the-palestinian-and-israeli-people-us-government-peace-plan/

[12] La proposta dell’allora ministro della difesa Gantz prevedeva “un’annessione light”, cioè solo di tre insediamenti nell’area di Gerusalemme e di Nablus a predominanza araba, per cui in ottica israeliana verrebbero risolti i problemi di sicurezza e ridotte le tensioni tra villaggi palestinesi e villaggi israeliani.

[13] I. Mukhtar, Anadolu Agency, Hamas, Fatah meet in Turkey for reconciliation talks, 22/09/2020, https://www.aa.com.tr/en/middle-east/hamas-fatah-meet-in-turkey-for-reconciliation-talks/1981409

[14] G. Chiarolla, OSMED, La riconciliazione tra Hamas e Al-Fatah: quando la pace è sopravvivenza, 16/03/2021, https://www.osmed.it/2021/03/16/la-riconciliazione-tra-hamas-e-al-fatah-quando-la-pace-e-sopravvivenza/

[15] Ibidem

https://unsplash.com/it/foto/a...

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L'Autore

Sara Oldani

Sara Oldani, classe 1998, ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano e prosegue i suoi studi magistrali a Roma con il curriculum in sicurezza internazionale. Esperta di Medio Oriente e Nord Africa, ha effettuato diversi soggiorni di studio e lavoro in Turchia, Marocco, Palestina ed Israele. Studiosa della lingua araba, vuole aggiungere al suo arsenale linguistico l'ebraico. In Mondo Internazionale Post è Caporedattrice dell'area di politica internazionale, Framing the World.

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