Come è concepito il diritto all'aborto nel mondo?

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  Sara Scarano
  04 giugno 2021
  7 minuti, 24 secondi

Il diritto a un aborto sicuro è un tema ancora fortemente dibattuto in molti Paesi del mondo, nonostante esso sia da considerarsi un fondamentale diritto umano, come ripetuto costantemente da organizzazioni quali Amnesty International [1].

Già nel 1967 l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosceva l’aborto non sicuro come un serio problema di salute pubblica, e nel 2003 sviluppava apposite linee guida tecniche e politiche in sua opposizione, compresa la raccomandazione agli Stati del mondo di disciplinare in merito alla protezione della salute delle donne. Sulla stessa linea, nel 1994 – durante la Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo tenutasi al Cairo – ben 179 governi firmarono un programma d’azione nel quale veniva sancito un impegno formale alla prevenzione dell’aborto non sicuro. La negazione del diritto d’accesso a un aborto sicuro, infatti, è da considerarsi una violazione del diritto alla salute, del diritto alla privacy e, in alcuni casi, del diritto alla libertà da trattamenti crudeli, inumani e degradanti. In quest’ultimo caso, la negazione del diritto è frequentemente legata a questioni di discriminazione e violenza di genere. A tal proposito si è espressa la Commissione per l’Eliminazione delle Discriminazioni contro le Donne [2], spiegando come l’inosservanza del diritto alla salute riproduttiva della donna – frequentemente concretizzata in una criminalizzazione dell’aborto o nella prosecuzione forzata della gravidanza – sia una forma di violenza di genere assimilabile alla tortura o al trattamento inumano. Una legge che criminalizza i servizi a garanzia della salute sessuale della donna è, quindi, da considerarsi in piena violazione dei diritti umani.

Globalmente si registra una tendenza alla liberalizzazione delle pratiche di aborto: solo tra il 2000 e il 2009 ventinove Paesi del mondo hanno modificato le proprie leggi sull’aborto e tutti (ad eccezione del Nicaragua) hanno ampliato le motivazioni giuridiche che consentono l’accesso al servizio di interruzione di gravidanza. I Paesi più industrializzati sono quelli che offrono maggiori certezze in merito, mentre di norma i Paesi del Sud del mondo oscillano tra garanzie condizionate e negazione totale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, circa l’8% delle morti femminili globali avviene a causa di complicazioni dovute a pratiche di aborto non sicure, compiute in special modo nei Paesi in via di sviluppo.

Se esaminiamo il globo sotto la lente del diritto all’aborto possiamo identificare cinque categorie di Paesi. I Paesi che proibiscono completamente l’aborto sono ventisei, tra cui El Salvador, Nicaragua e la Repubblica Dominicana in America Latina, Repubblica Democratica del Congo e Senegal in Africa, Iraq e Filippine in Asia e Medio Oriente e, in ultimo, Malta e San Marino nell’area europea. Circa trentanove Paesi consentono il ricorso all’aborto solo a condizione che esso sia necessario per salvare la vita della madre, mentre cinquantasei Stati lo permettono unicamente al fine di preservare la salute fisica e mentale della madre. Quattordici sono, invece, quei Paesi in cui l’aborto è possibile su basi sociali ed economiche, cioè in cui il ricorso all’aborto è valutato rispetto all’impatto che una gravidanza avrebbe sulla madre alla luce delle sue condizioni sociali ed economiche e dell’ambiente in cui essa vive. L’India, tra tanti, è uno dei paesi che appartengono a tale categoria e proprio l’India nel 2020 ha visto l’approvazione del Medical Termination of Pregnancy (Amendment) Bill, secondo il quale per praticare l’interruzione di gravidanza per feti fino alle dodici settimane di età è richiesto il parere di un solo medico, riguardo ai possibili rischi che la prosecuzione della gravidanza potrebbe portare alla salute fisica e mentale della madre o al benessere del futuro nascituro. In ultimo, sono ben sessantasette i paesi in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è possibile su richiesta della donna, fatto salvo il limite massimo per la pratica dell’aborto, comunemente fissato a dodici settimane. Circa il 60% delle donne in età riproduttiva vive in uno dei Paesi in cui l’aborto è praticato; di contro, un 40% affronta barriere legali insormontabili, e ciò si ripercuote negativamente sulla salute di più di 700 milioni di donne nel mondo. Le restrizioni legali all’aborto, infatti, non si traducono in una riduzione del numero di aborti, bensì in un aumento di pratiche irregolari e infinitamente più rischiose.

Seppure molti Stati abbiano intrapreso un cammino verso la garanzia di aborto sicuro, altri, invece, hanno deciso per un ampliamento delle restrizioni. Un esempio è la Polonia, che a inizio anno ha promulgato una nuova legge che aggiunge ulteriori limitazioni alle donne che scelgono di abortire, criminalizzando l’interruzione di gravidanza in casi di malformazione del feto. Se, infatti, la maggioranza dei Paesi europei rientra nell’ultima delle cinque categorie sopra menzionate, sei di questi hanno ancora norme fortemente restrittive in materia, non permettendo né l’aborto su richiesta né quello su basi socio-economiche: Andorra, San Marino e Malta non consentono l’aborto in nessuna circostanza; il Liechtenstein lo permette solo in casi di rischio per la salute della donna o in casi in cui la gravidanza risulti da uno stupro; Monaco e la Polonia lo consentono nei casi appena citati e con possibilità di gravi anomalie del feto. In aggiunta, in alcuni Paesi europei in cui l’aborto è consentito, la stigmatizzazione di chi ricorre a tale pratica è ancora fortemente presente, mentre l’accesso stesso all’interruzione di gravidanza in certi Stati è condizionato dalla volontà o meno del personale medico di mettere in atto la pratica. In Italia, per esempio, le autorità statali non hanno mai preso alcun provvedimento atto ad assicurare che i possibili rifiuti per motivazioni di coscienza o religiose da parte del personale sanitario non comportassero un ritardo o una mancanza di cure per le donne intenzionate ad abortire legalmente.

Anche negli Stati Uniti, dove le donne hanno la possibilità di abortire liberamente, un numero crescente di Stati ha promulgato ulteriori misure restrittive, quali, ad esempio, proibire l’interruzione di gravidanza dopo le sei settimane – come è stato fatto in Texas alla fine del mese di maggio – e applicare regolamentazioni stringenti sulle cliniche specializzate. Sul fronte asiatico, invece, a gennaio 2021 il Parlamento tailandese ha votato a favore di una legge che permette l’aborto nel primo trimestre, mantenendo tuttavia in vigore sanzioni che oscillano tra multe salate e fino a sei mesi di prigione per quelle donne che lo effettuano più tardi.

In America Latina, invece, una svolta storica in materia di aborto è avvenuta a dicembre 2020, quando il Senato argentino ha votato a favore della legalizzazione dell’aborto durante le prime quattordici settimane di gravidanza, portando il numero di donne che hanno accesso alla pratica dal 3% al 10%. A parte questo piccolo spiraglio di luce, l’interruzione di gravidanza rimane interamente proibita in una pluralità di altri Stati, tra cui Jamaica, Haiti e Honduras, mentre è più ampiamente accettata solo in casi di stupro o per la salvaguardia della vita della madre. La cosiddetta “onda verde” argentina potrebbe però portare significative modifiche anche in altri Stati: in Colombia, per esempio la Corte Costituzionale ha accordato di esaminare una petizione per la rimozione dell’aborto dai reati previsti dal codice penale, mentre in Brasile la Corte Suprema è prossima alla deliberazione finale su una contestazione legale del 2018 che porterebbe alla decriminalizzazione dell’aborto nelle prime dodici settimane di gravidanza.

In ultimo, è importante notare come l’attuale situazione pandemica abbia influito in maniera negativa sulla possibilità di effettuare interruzioni di gravidanza: barriere normative sono infatti state progressivamente imposte all’aborto in dodici Paesi dell’area europea (Belgio, Estonia, Irlanda, Finlandia, Francia, Norvegia, Portogallo, Svizzera, Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord). La pratica dell’aborto su consulto telematico è stata utilizzata prevalentemente nei Paesi del Regno Unito e in Danimarca, mentre la Francia e l’Irlanda sono ricorse a uno spostamento del limite per l’aborto domestico a nove settimane. In Irlanda del Nord, in particolare, nonostante la fase di liberalizzazione iniziata nel 2019 sia stata accelerata durante la pandemia, è rimasto in vigore l’obbligo che la prima pillola per l’aborto medico venga assunta presso una clinica apposita, rendendo la pratica ancor più difficoltosa durante periodi di lockdown.

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Sara Scarano

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